Site icon Allonsanfàn FGCI

 “Così la sinistra va ricostruita”

Intervista a Walter Massa pubblicata da l’Unità l’8 Febbraio 2024

«C’è una sinistra da ricostruire, l’Arci continuerà a fare l’Arci ma senza più scivolate nell’antipolitica. Il nostalgismo mi preoccupa un po’, la memoria è importante ma bisogna anche tirarsi su le maniche. La riunione degli ex ragazzi e ragazze della Fgci è una grande occasione»

di Umberto De Giovannangeli 

Quelle “belle bandiere” le ha portate con sé. Un po’ invecchiate, ma sempre belle, attuali, che rappresentano un unicum che unisce passato, presente, futuro. Da “figgicciotto” a presidente nazionale dell’Arci. E in mezzo tante battaglie di libertà. La parola a Walter Massa.

“Quella spinta che voleva cambiare il mondo”. È molto più del titolo di “Allonsanfàn”, l’incontro del 10 febbraio a Firenze “delle ragazze e dei ragazzi della Federazione Giovanile Comunista Italiana degli anni ’70-‘80”. Cosa è stata quella “spinta” e che ne è rimasto oggi?

Mi sono avvicinato alla politica attiva attraverso la Lega Studenti Medi che in quegli anni era un punto di contatto vero tra la mia vita scapestrata di periferia e, appunto, la politica. C’era il Partito, la parrocchia e c’era la scuola. I primi volantini, i primi inviti alle riunioni (frequentate pochissimo in quegli anni poiché noiose ai miei occhi interessati unicamente al calcio) e le prime manifestazioni a cui si andava comunque per stare insieme fuori da scuola. In quel movimento e in quegli anni c’era la FGCI che incrociai per la prima volta, quasi sempre indirettamente, nel movimento studentesco. Quando finalmente mi decisi ad aderire nel 1990, la FGCI decise di sciogliersi per far nascere la Sinistra Giovanile e le associazioni tematiche collegate. A-Sinistra divenne la mia casa per un po’, poi piano piano prese piede l’impegno nella Sinistra Giovanile.

E poi?

Nel 1991, con mio padre decidemmo di aderire formalmente al PDS, su posizioni ovviamente differenti. Io tra i Comunisti Democratici di Ingrao e Tortorella e lui che guardava alla parte riformista incarnata in quella fase da D’Alema. Questa parentesi personale mi serve per non dimenticare una storia che non era solo l’adesione ad un partito o ad una associazione, era un pezzo di vita una tappa che volenti o nolenti si faceva per buttarsi nel mondo “dei grandi”. Erano anni traumatici, gli anni ‘80 e ’90, con il portato nuovo della tv commerciale e ho il ricordo delle riunioni sempre più difficili da organizzare. Certo avevamo una bella eredità da difendere che era, appunto, quella della gloriosa FGCI di cui, ricordo, curavamo con grandissima attenzione tutti i manifesti come fossero cimeli unici. I miei compagni di scuola mi prendevano in giro, loro avevano appesi in camera i poster di Madonna o di Baggio e io quello della festa nazionale della Fgci dedicata all’Africa. Ma nonostante ciò, io avvertivo che quella era la strada per cambiare il mondo o, perlomeno, di renderlo migliore e sentivo, al tempo stesso, che da lì in poi tutto sarebbe stato più difficile e che quel mondo fatto di tante opportunità di crescita vissuto fino ai primi anni ‘90 sarebbe piano piano diventato altro. Meno male che nel frattempo arrivò l’incontro con l’Arci. Che in quegli anni diviene la casa dove riporre quella spinta e quelle speranze, ma anche le lotte per la difesa dei diritti e, come ricorda sempre Luciana Castellina, di fatto fa propria l’eredità culturale e politica di quella spinta, assumendola come poi accadrà con più evidenza con l’arrivo di Giampiero Rasimelli, Tom Benetollo, Raffaella Bolini e tutta la banda degli ex fgciotti.

Quella FGCI aveva una forte vocazione internazionalista. Tutto archiviato?

No, direi che non è tutto archiviato pur in un contesto molto differente. Dallo scioglimento della FGCI almeno fino al 2004 quella spinta rimane fortissima. In qualche modo attraversa Genova nel 2001 e poi l’esperienza dei Social Forum che sono state una vera e propria palestra formativa per almeno due generazioni, la mia compresa. E tutt’ora, pur in un contesto oggettivamente più difficile, vive e affronta contraddizioni enormi, date dal contesto ma anche dal passaggio del tempo che rende sempre le cose più nitide, vere e anche meno dogmatiche. Io sono in questi giorni ad Auschwitz e Birkenau con 870 ragazze e ragazzi tra i 16 e i 19 anni che stanno vivendo probabilmente l’esperienza emotiva più forte della loro vita, e lo si vede dalle lacrime che solcano i loro visi. E sono lacrime che riportano le loro domande inevitabilmente agli orrori di oggi, in Ucraina, in Palestina, in Afghanistan e in molte altre parti del mondo di questa “guerra a pezzetti” tanto che molti di loro, senza alcuna dietrologia, quella domanda difficilissima, inimmaginabile, te la fanno e tu balbetti qualche frase di circostanza, stretto tra il senso di responsabilità di non rendere l’Olocausto una questione del passato (perché non lo è e basta guardare a ciò che sta accadendo in Germania) e dall’altro giustificare un crimine di guerra per il massacro di civili colpevoli di essere nati palestinesi. Qui, attraversando Birkenau, ti rendi conto davvero che le sigle che ci appioppano a seconda del posto in cui nasciamo, la religione che ereditiamo per il semplice fatto di essere nati sopra o sotto l’equatore, sono una scusa per poter continuare a fare in modo che i più ricchi possano vivere sulle spalle dei più poveri in un perenne scontro tra nord e sud, altroché est e ovest. E finché durerà questa condizione, la visione altermondista, internazionalista o per dirla come la dicevamo qualche decennio fa con grande forza, la visione pacifista, ci vedrà in campo determinati come accade ancora oggi.

Di quella storia, di quell’impegno collettivo cosa ti porti dentro e cosa pensi sia ancora attuale?

Mi pare doverosa una premessa. Sono un po’ preoccupato del nostalgismo di sinistra. È un periodo denso di anniversari importanti che hanno fatto la nostra storia. Noi quest’anno ricordiamo Tom e i vent’anni dalla sua scomparsa, e la nostra parola d’ordine è evitare tutto ciò che appare polveroso. Lui per primo ce lo ricorderebbe. Ma sono i 100 anni dell’Unità, i 40 anni dalla morte di Enrico Berlinguer, i 100 anni dall’omicidio Matteotti (che il Governo non vuole finanziare e sulla quale abbiamo intenzione di fare molto casino, tanto per essere chiari). E vedo tanta giusta e buona volontà nel voler ricordare, nel ritrovarsi, ma non vedo scattare quella scintilla che partendo da quelle storie diventi una volontà nel ripartire, tirarsi su le maniche e riorganizzare un campo alternativo a quello attuale. Eppure da più parti, anche distanti dalla nostra storia, il giudizio su questi ultimi 30 anni è ormai impietoso. L’ultima in ordine di tempo è stata Rosy Bindi quando ha ricordato che le speranze nate dalla caduta del Muro di Berlino che tutti noi ricordiamo bene altro non sono state che la vittoria del capitalismo e non della democrazia, della giustizia sociale e della pace. È o non è attuale questa riflessione? È o non è attuale ridare slancio ad un nuovo impegno civico e politico per andare oltre questo asfissiante presente? Io penso di sì. E qui trovo “Allonsanfàn” come una grande occasione, come lo è stata l’anno scorso a Capaci “Amunì”: c’è questo spirito nuovo da cogliere e una nuova strada da intraprendere se non vogliamo limitarci alla memoria, per quanto importante.


Lotta di classe, una visione ecopacifista della crescita, la difesa dei più indifesi, a cominciare dai migranti che continuano a morire nel Mediterraneo, una effettiva parità di genere, mobilitarsi contro il genocidio in atto a Gaza… Una sinistra che non è all’altezza di queste sfide, può ancora definirsi tale?

Una sinistra completamente da ricostruire mi verrebbe da dire. Anche sul piano semantico, aggiungerei. Guardate, io non sono mai stato persuaso fino in fondo da queste continue distinzioni tra sinistra politica e sinistra civica. Per contro ho sempre pensato che la classe politica fosse la quasi esatta copia di ciò che era la società. In una osmosi tragica ma quasi perfetta. E lo stesso vale per la sinistra dunque. E su questo noi, l’Arci, ci stiamo interrogando seriamente. Dove sta infatti, se esiste ancora, il confine tra noi e la politica? Perché, banalmente, se vogliamo impedire che una nuova esclusione di classe prosegua nella più imponente disinformazione di massa mai vista (altroché negazionismo) o un nuovo approccio alle migrazioni sia definitivamente assunto, occorre avere una sinistra politica degna di questo nome, capace di contare nelle sedi istituzionali perché in grado di essere credibile e capace di rappresentare interessi. I nostri possibilmente. E se non c’è? – cosa di questi tempi non così lontana dalla realtà – Chi la deve ricostruire? La stessa classe politica, magari rigenerandosi comodamente grazie a leggi elettorali antidemocratiche e/o leggi sul sistema dei partiti che ormai permettono solo a chi ha i soldi di partecipare alla vita politica? Per non parlare delle riforme costituzionali tese ad escludere e rendere sempre più marginali intere fasce di popolazione. Ecco, io penso che quel confine che una volta era segnato ed evidente e garantiva un sistema, oggi non ci sia quasi più e non vale solo per il rapporto tra corpi intermedi e partiti. Vale in tutto. Pensiamo al ruolo del terzo settore e dell’Associazionismo sempre meno libero e sempre più piegato al lavoro di welfare che lo Stato non garantisce più. E per questo sempre più vessato ed equiparato all’impresa? Se non ce ne siamo accorti è saltato un sistema, già parecchi anni fa, e nessuno si è preoccupato di costruirne un altro o mettere mano a quello devastato, più dalla seconda che dalla prima repubblica a mio avviso. E qualcuno deve farlo invece, altrimenti la sinistra, la democrazia e il paese non ci saranno più. E il salto nel buio si trasformerà in una caduta libera perenne. L’Arci continuerà a fare l’Arci, ma senza più tentennamenti o scivolate nell’antipolitica o nell’autismo autonomista. Se un tempo potevamo giustamente rivendicare l’autonomia del sociale dalla politica, oggi dobbiamo per forza abbattere muri, barriere e confini e riappropriarci della possibilità di incidere nelle scelte reali, anche con un approccio di classe, sia come individui che come cittadini organizzati. Perché l’Arci non è e non è mai stata una associazione di operatori culturali e/o sociali; l’Arci è e rimane una associazione di cittadine e cittadini che si organizza in modo collettivo. Per continuare a non perdere la spinta nel voler cambiare il mondo e il nostro quartiere sul serio.

Oggi sei presidente nazionale dell’ARCI. I tempi sono cambiati d’allora, ma la fascinazione per la politica resta un grande tema irrisolto, soprattutto nel coinvolgimento dei giovani. Come risollevare le “belle bandiere”?

Ho sicuramente una bella gatta da pelare, questo è certo. Ma ho la fortuna di non essere solo e di poter vivere in questo momento un processo rigenerativo epocale dentro l’Arci. È una fase in cui per certi versi ci stiamo riscoprendo e per altre stiamo provando a sperimentare il metodo e il modo di stare insieme. È una fase entusiasmante nonostante ciò che accade drammaticamente attorno a noi sul piano internazionale e nazionale. Ed è anche una fase coraggiosa perché non vedo più ritrosie o timidezze nel parlare di alcuni argomenti. La politica, ad esempio: nella nostra analisi e nella nostra prospettiva sta tornando ad essere uno strumento di emancipazione da usare senza avere paura di scottarsi o di rinnegare ciò che siamo e che vogliamo continuare ad essere, ossia una grande associazione culturale. Ma è innegabile che i tempi sono cambiati ed è cambiata anche l’Arci. Ha passato momenti meno felici e oggi vive questa neo maturità che la rende capace di affrontare qualunque situazione a viso aperto. È anche un grande lavoro formativo che abbiamo avviato nelle settimane scorse dopo un primo anno dedicato alla cura e alla prossimità per non fare sentire nessuno solo. È ciò che ci permette di costruire una prospettiva, uno stimolo all’aggregazione per molti ma non per tutti. Non per chi non crede che abbia ancora più senso oggi battersi per libertà e giustizia sociale. È il modo più efficace per rivolgersi a chi ha voglia di tornare a rimboccarsi le maniche dopo magari anni di esilio volontario e per chi, più giovane, ha voglia di battersi per il proprio futuro non da solo. È tornare a fare politica sapendo che la politica è in grado di cambiare le cose, unendo e non dividendo. È tornare a dare un senso vero, concreto, una speranza a quella bellissima intuizione di Don Lorenzo Milani “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”.

Exit mobile version