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“Il capitalismo ha avvelenato il mondo, e la sinistra ne è prigioniera”

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“Il capitalismo ha avvelenato il mondo, e la sinistra ne è prigioniera”

Intervista a Raffaella Bolini pubblicata su l’Unità del 2 Febbraio 2024

«Ha accettato il dominio del mercato, ha rinunciato al ruolo della politica. Se ti neghi le chiavi per leggere il mondo, il mondo non lo capisci più. La Fgci degli anni 80? Creava ponti, voleva rifondare un pensiero. Dopo non ho avuto più tessere di partito»

di Umberto De Giovannangeli 

Da Comiso a Sarajevo. Dalla Palestina al Mediterraneo: non c’è lotta per la pace e contro il razzismo che non l’ha vista protagonista, con passione e umanità. Raffaella Bolini, Responsabile delle relazioni internazionali dell’Arci, fa parte del Consiglio Internazionale del Forum Sociale Mondiale, del Comitato Esecutivo della Rete Euromed per i Diritti Umani, del Board della rete europea Solidar, del comitato promotore dell’Altersummit ed è vicepresidente del Forum Civico Europeo.

La FGCI che tu hai vissuto, in un breve ma intenso arco di tempo, è la “FGCI post-Comiso”, della resistenza nonviolenta, di un pacifismo capace di contaminare e spostare verso il movimento anche un grande partito come il PCI. Cosa ti resta di quella esperienza?

La mia è una storia un po’ strana: entrai a lavorare a Botteghe Oscure nel 1985 senza avere tessere in tasca, né della FGCI né del PCI. Da sempre vicina al PdUP, Luciana Castellina come stella polare, ero un’attivista del movimento pacifista. Ma era morto da poco Berlinguer. Ci sentivamo orfani. La FGCI di Marco Fumagalli era stata con noi a prendersi le botte a Comiso. E così, quando Pietro Folena mi chiese di dare una mano ai Centri di Iniziativa per la Pace nella FGCI rifondata che si apriva ai movimenti, andai.

Che anni furono quelli?

Furono davvero anni intensi. Nella vulgata, gli anni 80 sono declino e discoteche. È vero, mutava la società. Cambiava il peso dei soggetti sociali su cui la sinistra aveva fondato la sua forza – gli operai, i contadini. Ma, a saperlo e volerlo guardare, c’era un pensiero nuovo che poteva essere la base di una sinistra nuova, forte e all’altezza dei tempi che si preparavano. Stava nel pacifismo, nell’ecologismo, nel femminismo, nei movimenti LGBT, nel neonato movimento antirazzista. Stava nella società civile e nei movimenti. Che in quel periodo furono capaci di mobilitazioni straordinarie, come la vittoria nel referendum contro il nucleare civile del 1987, e si strutturavano in associazioni per dare permanenza alle lotte.

E la FGCI in tutto questo sommovimento?

La FGCI di quegli anni scelse di sostenere quelle esperienze. Di dare il suo contributo. Di creare ponti con la politica. E di rifondare un pensiero di sinistra nuovo. Per questo il comunicato finale della Direzione del PCI dopo la Bolognina mi lasciò di stucco. A me del nome importava poco, ma non capivo perché si dovesse dire che il muro di Berlino era caduto addosso a noi. Il Muro di Berlino era caduto sui regimi dell’Est che contestavamo, e una Europa senza muro era la grande occasione per fondare una sinistra nuova che innestasse il meglio delle ideologie antiche con le culture moderne dei movimenti sociali. Il PCI si divise su faglie che non erano le mie. E dopo la FGCI non ho più avuto tessere di partito.

Era una via obbligata?

Ti racconto una cosa. Con “Nero e non solo” avevamo iniziato a fare volontariato, con i Campi della Solidarietà per gli immigrati. Alla fine del campo di Villa Literno uscì un articolo: diceva che nel campo eravamo divisi fra mozioni del PCI. Noi avevamo lavorato una estate insieme, sotto il sole a picco, con centinaia di immigrati sfruttati e umiliati. Sapevamo che sarebbe stata l’ultima volta, per noi, sotto lo stesso tetto politico. Chi sarebbe andato da un lato, chi dall’altro. Ma insieme scrivemmo una risposta di fuoco, dicendo che in quel mese non ci eravamo neppure accorti di chi stava con chi. Avevamo lavorato per i diritti, insieme. Questo era ciò che ci univa. La firmammo tutti e tutte.

Quella FGCI fu parte di un movimento plurale, incontro di culture, esperienze, punti di vista organizzati, capaci di trovare una sintesi avanzata. È l’esperienza del “Comitato 24 ottobre”, che ebbe tra i suoi facitori più illuminati e aperti all’altro da sé, un compagno che c’ha lasciato troppo presto: Tom Benetollo.

Alla prima manifestazione nazionale a Roma contro i missili a Comiso, il 24 ottobre 1981, andai per caso. Ero una ventenne vittima del “riflusso”, non avevo resistito nel ’77 alla violenza nei cortei. Trovai i negozi aperti, le famiglie, una marea di persone. Fu una illuminazione sulla via di Damasco: gli anni di piombo erano finiti. I comitati per la pace nascevano come i funghi, nelle città e nei quartieri. Dal Comitato 24 ottobre nacque il Coordinamento Nazionale dei Comitati per la Pace. Associazioni e forze politiche – PdUP, FGCI, Arci e altri – guidavano il movimento insieme. E aprirono la porta alla partecipazione di base con una disponibilità straordinaria e unica. Noi imponevamo anche ai dirigenti di partito di fare le riunioni seduti per terra. Praticavamo disobbedienza civile, e loro prendevano le botte insieme a noi. Il 22 ottobre 1983, l’enorme manifestazione a San Giovanni, sul palco a parlare eravamo tre ragazzine, e Berlinguer in disparte sui gradini della Scala Santa. Credo fosse una scelta razionale di innovare per abbassare la piramide gerarchica, e non permettere mai più che una generazione di giovani considerasse nemico il PCI, come negli anni ’70. Quel movimento unitario pacifista fu dunque anche una reazione ai traumi degli anni di piombo, e un laboratorio voluto di nuova partecipazione democratica. Furono anni di fatica quotidiana per non lasciare fuori nessuno, incluse le aree dell’Autonomia Operaia con cui la FGCI si picchiava nelle piazze fino a pochi anni prima. E sul fronte opposto per includere le organizzazioni cattoliche, in primo luogo le Acli. Era il metodo Tom, il massimo allargamento su un obiettivo chiaro, che ha praticato fino a che è vissuto. Lo stesso con cui facemmo Genova. Il solo che funziona, per intercettare energie nuove, offrire punti di riferimento, costruire cultura politica popolare.

Chi era Tom Benetollo, compagno indimenticabile?

Tom era un intellettuale, studiava il mondo con i libri, i viaggi, le relazioni, la musica. Aveva visione, ma era soprattutto un costruttore di case. Per tutta la vita ha costruito movimenti, coalizioni, reti. Ha mollato una carriera nel PCI per ricostruire l’Arci sull’orlo del fallimento perché, spiegava, presto avremmo avuto bisogno di un tetto. La partecipazione democratica, senza la quale la democrazia non c’è, non è applaudire un leader. Bisogna costruire i luoghi dove le persone possano tirare fuori le loro risorse, metterle al servizio, ed esercitare il potere di cambiare le cose. Nel 2024 sono venti anni dalla morte di Tom. In Arci lo ricorderemo anche costruendo un sito/portale sulla Storia del Pacifismo Italiano, insieme a chi quella storia l’ha fatta. Questo tempo espone a rischi di semplificazione e imbarbarimento, in un mondo sempre più complesso. La formazione politica è sempre più affidata all’iniziativa individuale. La generazione che ha costruito il pacifismo italiano invecchia. E ha la responsabilità di consegnare alle nuove generazioni il proprio lavoro. Non per dare lezioni. Pensieri e pratiche si innovano, ma consegnare un pezzo di codice genetico a una generazione giovane può essere utile, per la lotta per la pace di cui oggi c’è un enorme bisogno.

Una sinistra che non abbia una vocazione internazionalista, che non sia portatrice di una visione delle relazioni internazionali che sia altro dal disordine globale che si fa guerra, ha ancora “diritto” di definirsi sinistra?

Ma quale sinistra? Una sinistra politica all’altezza in Italia non c’è. E la sinistra sociale è dispersa. Esiste una sinistra diffusa portatrice di pensieri e pratiche che, messe a sistema, disegnerebbero una credibile alternativa di sistema. Ma sono frammentate, e nessuno lavora ad unirle. Se ti riferisci al centrosinistra, ti dico questo: non si può leggere il mondo se hai gli occhiali sbagliati. Noi siamo immersi in una gigantesca crisi di sistema: la guerra, il collasso climatico, l’ineguaglianza estrema e la crisi democratica. Rischiamo un futuro di orrore, e l’estinzione. È il frutto avvelenato del capitalismo estrattivista, globalizzato, sfruttatore che governa il mondo. Che ha stracciato il compromesso capitale-lavoro del dopoguerra. Il problema è che la sinistra mainstream europea quella rottura l’ha fatta propria. Ha accettato il dominio del mercato, ha rinunciato al ruolo della politica – che è avere un progetto di società e, a piccoli passi, realizzarlo. Da noi, la parola “capitalismo” è tabù. “Competizione” e “crescita” sono concetti intoccabili. Se ti neghi le chiavi per leggere il mondo, il mondo non lo capisci più. E lo lasci andare, come se fosse guidato dal cielo, e i problemi non hanno cause, diventano solo e sempre una emergenza. Emergenza Covid, emergenza clima, guerra, povertà. Oggi critichiamo Meloni per il Piano Mattei. Qualche soldo all’Africa in cambio di fossile e stop ai migranti. Ma da quanti governi manca un pensiero sull’Africa orientato a obiettivi diversi?

La tragedia di Gaza. Perché in Italia non si riesce, dal 7 ottobre in poi, a costruire una mobilitazione all’altezza dell’orrore a cui assistiamo?

È una angoscia quotidiana. E vorrei discuterne più apertamente. Dopo il 7 ottobre anche in Arci abbiamo misurato le parole. Ci siamo attenuti alla bussola che ci aiuta a tenere la rotta: il diritto internazionale. Il diritto internazionale riconosce il diritto di resistenza anche armata ai popoli occupati. Ma vieta anche ai resistenti di compiere crimini di guerra. Se l’occupazione può spiegare il 7 ottobre, non lo può giustificare. Ma sono passati quattro mesi. E a Gaza c’è un abisso di barbarie. Una magnitudine di orrore. Tutto il catalogo dei crimini di guerra, a livelli inauditi. Ora la Corte Internazionale di Giustizia ha messo sotto inchiesta Israele per genocidio. Quella sentenza è una luce nel buio: chi commette sterminio, non può rimanere impunito. E allora: cosa impedisce oggi di unire le forze, di trovare le poche parole che possono tenerci tutti insieme? Cessate il fuoco, liberi tutti e tutte, fine dell’occupazione, stessi diritti per due popoli. Quando c’è di mezzo Israele non si riesce mai. Da anni mainstream e centrosinistra giustificano Israele sempre. Così, peraltro, non aiutano le forze progressiste e laiche in Palestina a recuperare egemonia. Israele è un paese malato. Lo dicono i pacifisti israeliani, quanto sia pericoloso declinare l’insicurezza in chiave securitaria, militarista, colonialista e razzista. La destra lo sta facendo, a vari gradi, in tutto il mondo. Israele è purtroppo diventato uno specchio dove guardarci, con paura. Va fermato. Per liberare il popolo palestinese, e anche il popolo israeliano.

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