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Non è più tempo di farsi perdonare di essere stati comunisti

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Non è più tempo di farsi perdonare di essere stati comunisti

Intervista a Gloria Buffo pubblicata su l’Unità del 24 Gennaio 2024

«Degli anni della Fgci è rimasta l’ansia di giustizia e la necessità di un impegno collettivo. La speranza invece si è consumata. Per ritrovarla la sinistra deve osare. Come può il richiamo all’Occidente restare il riferimento principe nel pensare al governo del mondo?»

di Umberto De Giovannangeli 

Di quella “bella gioventù” comunista, Gloria Buffo è stata militante e responsabile nazionale delle ragazze. Un impegno che da Milano la portò a Roma a confrontarsi con un PCI che faceva ancora fatica ad aprirsi al femminismo ma che quella irrequieta FGCI stava spingendo in avanti. Curiosità intellettuale e capacità di ascolto l’hanno caratterizzata in tutti i passaggi della sua esperienza politica, è stata più volte parlamentare e dirigente della sinistra, e in un agire pubblico che non si è mai interrotto.

“Quella spinta che voleva cambiare il mondo”. È molto più del titolo di “Allonsanfàn”, l’incontro del 10 febbraio a Firenze “delle ragazze e dei ragazzi della Federazione Giovane Comunista Italiana degli anni ’70-‘80”. Di quella FGCI sei stata militante e dirigente nazionale. Cosa è stata quella “spinta che voleva cambiare il mondo” e che ne è rimasto oggi?

Quella spinta a cambiare il mondo ha avuto tante madri e tanti padri. Nel mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale, il benessere era aumentato e si studiava di più, ma le ingiustizie, e non solo quelle sociali, legate alle differenze di classe, erano clamorose: frequentavamo una scuola pubblica in cui c’erano ancora le “classi differenziali”, esisteva il matrimonio riparatore… e anche vicino a noi sopravvivevano delle dittature. Però̀ si credeva nel progredire dell’umanità, la speranza scorreva nelle vene, cambiare si poteva. Ce lo diceva la musica prima ancora della politica… Poi è arrivato il ’68, una tempesta, e ha cambiato ancora le carte in tavola: io arrivo da lì, dai movimenti studenteschi e dai primi colletti di autocoscienza, non dalla tradizione comunista. Al Pci sono arrivata dopo, perché lì c’era il mondo del lavoro e perché si rifiutava la violenza politica ma quando nel ‘77 mi dissero che dal partito, come studentessa universitaria, dovevo passare alla FGCI ci rimasi male: mi sembrava una CL di sinistra, troppo perbene, troppo ligia ai padri…. Quello che resta? Insieme all’ansia di giustizia direi la necessità di un impegno collettivo. E non si tratta di una formula organizzativa: la buona politica non è una musica per solisti. Quella che di sicuro si è consumata oggi, oltre a tanto altro, è la speranza ed è una perdita esiziale. A mio figlio ventiduenne, e a molti suoi coetanei, il mondo disastrato arriva: hanno occhi per vedere, lo respirano ma non sanno a cosa aggrapparsi, a che riferimenti guardare. Friday for future ha trovato un muro, la sinistra non la riconoscono… Per ridare una speranza però io credo che occorra un catalogo rinnovato, dei pilastri che non si costruiscono solo coi vecchi materiali. Lo dico per i nostalgici ma anche per i rassegnati al corso delle cose. Svegliati sinistra, dice Folena. Fermiamo la china della guerra, dice Fumagalli. Bisogna osare aggiungo io. E guardarsi intorno. Mettendo in discussione alcuni capisaldi, nutrendosi col pensiero e le esperienze altrui.

Quella FGCI era pacifista, non violenta, con una forte vocazione internazionalista. Tutto archiviato?

No, ma il contesto è cambiato e non in meglio. Tra l’altro siamo passati per una prova di governo in cui la sinistra non ha dato il meglio, rinunciando alla battaglia delle idee. Oggi non si è all’altezza di nessuna grande sfida se non si attinge anche a ciò che si è pensato e prodotto in questi anni vicino a noi, a volte fuori di noi. La sinistra va ricreata. Come può il richiamo all’Occidente restare il riferimento principe nel pensare al governo del mondo? Non solo perché parliamo di una nettissima minoranza dell’umanità, ma per la cecità politica mostrata dall’89 in poi, per il riarmo dissennato, per il discredito morale caduto su chi ha provocato o alimentato guerre disastrose (ancora brucia la propaganda sui conflitti che dovevano liberare le donne dal chador…). Libertà di stampa e opinione, rispetto (formale a volte) per le donne non bastano a legittimare la presunzione di decidere, male, del mondo. È ora di uscire da questa gabbia ideologica. La debolezza dell’Europa non basta a giustificarla agli occhi del mondo. Universalismo e internazionalismo ripartono da qui, non dal recinto della fedeltà miope agli impegni atlantici.

Lotta di classe, una visione ecopacifista della crescita, la difesa dei più indifesi, a cominciare dai migranti che continuano a morire nel Mediterraneo, una effettiva parità di genere, mobilitarsi contro il genocidio in atto a Gaza …Una sinistra che non è all’altezza di queste sfide, può ancora definirsi tale?

Io credo che anche sul lavoro possiamo imparare. È necessario difenderne i diritti, e male si è fatto a trascurarlo in nome di una globalizzazione che non ha fatto vincere la democrazia ma il capitalismo predatorio. Opporsi allo sfruttamento oggi è anche coniugare lavoro e libertà, sovranità sul tempo: basta parlare con le ragazze, coi più giovani. Forse ha ragione Tortorella: la chiave di volta che è stato per il movimento operaio, il lavoro oggi sarà sempre più il sapere. Che è sempre stato un potere ma oggi lo è sempre di più e in modo diverso, decidendo non solo il reddito e i diritti ma anche l’esercizio critico della democrazia, il suo destino. Se crediamo che davvero quello in atto è un cambiamento antropologico portato dalla rivoluzione tecnologica e dalla concentrazione dei poteri, allora ci occorre un salto di civiltà. Anche la lotta di classe, per venire alla tua domanda, forse non si fa solo come prima.

E sulla guerra?

Anche sulla guerra, la sua inevitabilità, c’è un pensiero nuovo, fecondo che non viene solo dal pacifismo ma dal pensiero femminista. E che non riguarda solo la guerra ma l’ordine del mondo. È il principio della “cura”. Che non è lavoro di cura, dedizione, supplenza ma un pilastro che non faccia reggere il mondo solo su relazioni di potere, sfruttamento, ricchezza. Un modo non solo di organizzare i rapporti umani ma un paradigma di interesse generale. Un modo di riprodurre la vita che mette in discussione il comando sulle nostre vite globalizzate, che è Interdipendenza, responsabilità. Che, sia ben chiaro, nulla toglie al bisogno di un welfare universale, anzi. Le donne russe e ucraine che si oppongono alla guerra, le ragazze iraniane, le obiettrici israeliane sono solo testimonianze? La cura del mondo è solo uno sport per ambientalisti e anime belle o è già esperienza di tante persone che però non investe la politica degli stati e delle leadership? Il discorso di questo Papa sul creato è solo un richiamo religioso? Intendiamoci, la cura come principio ordinatore apre conflitti, non soccorre a valle. Per dare speranza la sinistra deve osare, anche sulle idee oltre che sulle pratiche. Senza timidezze. Un nuovo umanesimo non si costruisce solo con le esperienze del ‘900 e tanto meno con le sirene del pensiero unico.

Le ragazze della FGCI spostarono a sinistra il Pci sul femminismo?

È stato il femminismo a spostare noi e noi abbiamo spinto sul PCI. Mi ricordo quando a Roma fu organizzata dalle femministe la manifestazione “Riprendiamoci la notte”. Le ragazze della FGCI aderirono anche se Adriana Seroni, responsabile delle donne del PCI, non era d’accordo. Fu poi con lei e grazie anche a lei che trascinammo il partito sull’autodeterminazione femminile nella legge sull’aborto: il PCI preferiva che l’ultima parola spettasse al medico. È stata una storia di felice contagio anche se tanti problemi restavano. Poi gli uomini del PCI non erano tutti uguali: nel 1983, referendum per abrogare la legge sull’aborto, la FGCI organizzò una manifestazione nazionale a Firenze che apriva la campagna elettorale. Dal palco Berlinguer, che parlò dopo di noi, si spinse a definire quella di papa Woytila, un’interferenza inaccettabile nella vita politica del nostro paese. Per il partito che voleva un rapporto col mondo cattolico e temeva il referendum fu un benefico trauma: finalmente si poteva dire la verità.

E Gaza? E la strage dei migranti?

La sudditanza alla politica della destra israeliana di governo, insieme al cinismo dei dirigenti dei paesi arabi, ha creato le basi per la rovina di israeliani e palestinesi. Ho firmato l’appello di Andree Ruth Shammah, vivo nel Ghetto di Roma, ogni giorno i volti e gli occhi degli ostaggi di Hamas mi guardano dalle locandine affisse ai muri delle case e questo non mi impedisce di vedere che ciò che accade ai civili palestinesi è un orrore ingiustificabile. Così come va fermata la strage dei migranti nel Mediterraneo: dopo le crociate, le guerre di religione, la tratta degli schiavi, il colonialismo e la Shoah, l’Europa si è macchiata anche di questo crimine. Va ribaltato il discorso della destra: così l’Europa affoga, la nazione è una prigione, non un rifugio, andando avanti così i nostri giovani potranno andare solo a fare da badanti delle famiglie indiane e cinesi, altro che made in Italy. Così come va ribaltato con coraggio il discorso sul riarmo. Sappiamo che produce insicurezza, accende nuovi focolai, toglie risorse indispensabili alla vita. Sono argomenti popolari, a volte la sinistra è solo paralizzata dalle sue paure e dai suoi complessi. La stagione dei complessi è esaurita. Non è più il tempo di farsi perdonare di essere stati comunisti. Il mondo va cambiato con urgenza.

Permettimi una postilla: noi non abbiamo solo lottato, ci siamo anche divertiti. A Ravenna, a Cuba, a Capraia, a Livorno, ognuno nella propria città o nel proprio circolo. Sono rimasti memorabili gli scherzi, le sorprese, gli amori… La politica, quando è viva, è anche desiderio. Non di carriera ma di condivisione. Persino nei momenti bui.

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