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“Pacifismo, diritti e non violenza: la sinistra riparte dall’eredità della Fgci”

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“Pacifismo, diritti e non violenza: la sinistra riparte dall’eredità della Fgci”

Intervista ad Arturo Scotto pubblicata su l’Unità del 31 Gennaio 2024

Parla Arturo Scotto “Col nemico si parla sempre”. Negli anni della Guerra fredda e della corsa al riarmo, Berlinguer citò ad Assisi il “folle Francesco”. Ma quella lezione contro la retorica militarista sembra dimenticata

di Umberto De Giovannangeli 

Arturo Scotto, parlamentare e membro della Direzione del Partito Democratico, una storia nella sinistra, che inizia da giovanissimo.

“Quella spinta che voleva cambiare il mondo”. È molto più del titolo di “Allonsanfàn”, l’incontro del 10 febbraio a Firenze “delle ragazze e dei ragazzi della Federazione Giovanile Comunista Italiana degli anni 70-80”. Per età, tu sei entrato in politica, da giovanissimo, con la Sinistra giovanile. Un filo conduttore di quell’esperienza, una sorta di “eredità” politica e cultuale ricevuta dalla Fgci, è stato il tentativo di coniugare idealità e concretezza. Cosa resta di quella sfida?

Quella non fu una sfida, fu un’organizzazione politica collegata al più grande e importante partito comunista dell’Occidente. La Fgci degli anni 70 e 80 si è sicuramente caratterizzata per una maggiore soggettività rispetto al passato, perché era inserita dentro un movimento che era mondiale che aveva visto per la prima volta emergere una spinta alla partecipazione democratica di chi non aveva vissuto direttamente la tragedia della guerra. Il 1968 era stato indubbiamente un momento di rottura e quella esperienza ne era naturalmente figlia. Quella generazione incrocia movimenti poderosi e globali, che sfidano la sinistra tradizionale, le sue strutture obsolete, la separazione tra chi manifestava per il diritto al lavoro e chi per il diritto allo studio. Enrico Berlinguer, che della Fgci era stato un fondatore e capo fino a pochi anni prima, consentì maggiore autonomia all’organizzazione giovanile promuovendo così un nuovo gruppo dirigente che poi ha accompagnato e diretto la svolta e la stagione di governo dell’Ulivo.

E la Fgci?

La Fgci rappresentava un movimento fondamentale per stare in sintonia con la società in continua evoluzione. In questo senso, a mio giudizio, connetteva idealità e concretezza. Sono gli anni in cui emerge con forza la forza del movimento delle donne, che cambia la pelle dei giovani comunisti e da cui nasce la straordinaria elaborazione della Carta delle donne: di questa novità c’è tanto nell’evento del 10 febbraio. Personalmente non sono mai stato iscritto alla Fgci, quando ho aderito alla sinistra giovanile nel Pds era il 1992, un anno dopo lo scioglimento. Torre Del Greco, sezione Palmiro Togliatti. Eravamo nel pieno di Tangentopoli, la mafia aveva sposato la strategia stragista, emergeva una domanda di pulizia morale che contagiava una generazione che chiedeva di uscire da cinquant’anni di dominio assoluto della Democrazia cristiana. Che nella mia provincia aveva significato spesso contiguità con i poteri criminali, clientelismo, speculazione edilizia, devastazione ambientale, corruzione diffusa. Questa spinta nel Sud era molto forte, per quanto spesso contraddittoria e talvolta ingenua. Il movimento di lotta dei giovani contro la camorra, quello nato con la marcia di Ottaviano contro lo strapotere di Raffaele Cutolo, di cui ha parlato anche Gianfranco Nappi su l’Unità è sempre stato una bussola per noi. C’è un prima e un dopo quella mobilitazione nella nostra terra, perché coincide con una presa di consapevolezza di quando la criminalità fosse solo sottosviluppo, sottocultura, sottosalario. Univa la lotta per la legalità con la giustizia sociale: un banco di prova per tutto il movimento antimafia. E la Fgci ne fu la guida, non un pezzo tra gli altri.

La Fgci prima, Sinistra giovanile poi, nei loro tempi sono state pacifiste, praticavano la non violenza e avevano una forte vocazione internazionalista. Tutto archiviato?

Ogni tempo afferma una politica che diventa storia. Anche se questa massima non vale sempre, se penso all’epoca dell’esecutivo Meloni, che più delle volte si limita ad assecondare la cronaca se non addirittura alla cronaca nera. Il secondo dopoguerra del Novecento ha visto un ampio movimento che raggruppava comunisti, cattolici, socialisti, impegnati in una imponente e persistente lotta per la pace. Lotta per la pace significava e significa che la politica deve trovare una soluzione di compromesso tra le parti: Hiroshima e Nagasaki avevano fatto capire al mondo che l’estinzione della specie umana era possibile. La lotta per la pace significava innanzitutto evitare che il mondo precipitasse nell’incubo della deflagrazione nucleare. La non violenza è figlia di una fase successiva, sicuramente legata alla critica alla politica di potenza dei blocchi, alla corsa al riarmo degli anni 50, alle suggestioni che venivano dal mondo cattolico e che incrociavano la sensibilità di una larga fascia di generazione che rifiutava la retorica militarista che pervadeva anche un pezzo del mondo della sinistra politica. Sono gli anni in cui Berlinguer avvia la riflessione sul “folle Francesco” dalla Rocca di Assisi spiegando al mondo che con il nemico si parla sempre, perché la pace si fa tra nemici.

E poi?

Dopo la fine della guerra fredda, almeno fino all’attacco alle Torri Gemelle del 2001, l’attenzione sui grandi conflitti del mondo era indubbiamente meno stringente: era rimasto in piedi un solo gendarme, tutti si sarebbero allineati con il suo way of life. I Balcani avevano sicuramente annunciato la ripresa dell’era dei nazionalismi, ma gli accordi di Oslo avevano fatto crescere la suggestione che anche in teatri insanguinati come quello mediorientale una possibilità per la pace ci fosse. Era un’illusione, la globalizzazione aveva portato con sé la reazione di particolarismi etnici e religiosi che ci avvisavano che la storia non era finita. Richiamare oggi l’internazionalismo di quegli anni significa auspicare che si ristabiliscano nuovi e saldi rapporti tra organizzazioni affini di vari paesi del mondo. Il paradosso è che l’interdipendenza economica anziché globalizzare le lotte ha rinazionalizzato la politica. E dunque la sinistra. La mia esperienza giovanile provò a combattere questa tendenza: il movimento altermondialista: Genova, Firenze, Porto Alegre, Bombay. Il neoliberismo e la guerra si alimentavano a vicenda, come dimostrò l’invasione scellerata dell’Iraq e le conseguenze che ancora oggi paghiamo. Non fu semplice perché la Quercia allora aveva una lettura ottimistica della globalizzazione e per noi il rapporto con i movimenti che crescevano in quella fase tra i nostri coetanei non era facile. Aprimmo faticosamente un rapporto dialettico con il partito, anche perché – penso a Napoli in particolare – c’era una vivacità fortissima di associazioni culturali, collettivi universitari, movimenti di lotta per il lavoro e per la casa che ne facevano un unicum in Italia. Il conflitto lo vivevamo da vicino e pur essendo i rappresentanti giovanili di un partito che governava città, regione e spesso Palazzo Chigi dovevamo stare dentro e conquistare posizioni. È rimasto purtroppo poco di quella scintilla, ma un seme di critica al capitalismo sopravvive in tanti scritti che continuano a circolare e di riviste che conservano un peso nel dibattito culturale e intellettuale del paese. Quando si evoca l’internazionale oggi si pensa al Komintern, a qualcuno che muove gli altri come marionette, strumentalmente. L’internazionalismo è invece conoscenza e confronto, solidarietà e consapevolezza. L’internazionalismo è l’antidoto contro le guerre perché la condizione sociale – una volta si sarebbe detto la condizione di classe – è più importante del concetto di nazione. Che è un muro che può uccidere. Come vediamo di nuovo nel cuore dell’Europa dopo l’aggressione di Putin.

Lotta di classe, una visione ecopacifista della crescita, la difesa dei più indifesi, a cominciare dai migranti che continuano a morire nel Mediterraneo, mobilitarsi contro il genocidio in atto a Gaza … Una sinistra che non è all’altezza di queste sfide, può ancora definirsi tale?

La sinistra esiste per essere all’altezza di quelle sfide. Può farlo più o meno bene, ma quella è una delle sue principali ragioni d’esistere. Su migranti, su Gaza, non bastano le parole. Siamo in un mondo molto diverso da solo 15-20 anni fa. Bisogna tuttavia riconoscere che il nuovo Pd guidato da Elly Schlein abbia segnato una discontinuità. Non vederlo significa coltivare pregiudizi oppure vivere con il torcicollo permanente. Quale partito della sinistra ha posto con così grande nettezza il tema di una nuova politica salariale e di una redistribuzione delle ricchezze? Quale partito di sinistra mette in cima alla sua agenda il tema di un cambiamento del modello di sviluppo in senso ecosocialista? Stiamo provando a rimettere al centro dopo tanti anni il lavoro, partendo dal bisogno di riunificarlo dopo la stagione della precarizzazione estrema che ha vissuto. Lo facciamo in Parlamento ed anche nelle piazze. Dove prima era molto difficile entrare senza essere contestati. Non chiedo a nessuno di essere tenero con questo nuovo Pd. Però chiedo a tutti, anche al vostro giornale, di guardare i punti di rottura rispetto al passato recente. Perché per perdere il radicamento sociale ci vuole poco: basta fare il Jobs act, promuovere la buona scuola, andare a braccetto con Marchionne, civettare con Verdini e Berlusconi, evocare la retorica della rottamazione, esibire cinismo e spregiudicatezza nel raccontare le storie soltanto di chi ce l’ha fatta. Per ricostruire una credibilità invece ci vuole tempo se i punti di partenza sono questi. Così come una politica di alleanze visto che non c’è nessuno che può immaginare di fare da solo.

La tragedia di Gaza. Il bilancio delle vittime nella Striscia dall’inizio della guerra tra Israele e Hamas ha superato quota 26000: Il 70% delle vittime, secondo l’Onu, sono donne o bambini. Questa immane mattanza, che da più parti viene definita un genocidio, se viene denunciata fa subito scattare l’accusa di antisemitismo.

Chi è contro il cessate il fuoco è per continuare la guerra a Gaza. La Corte di giustizia dell’Aja ha stabilito che c’è una linea rossa che nessuno può oltrepassare. Ha respinto la richiesta di archiviazione voluta dal governo di Israele e ha deciso che il processo andrà avanti. Ha chiesto il rilascio immediato degli ostaggi. Ha lanciato un alert: il rischio di genocidio a Gaza è reale, bisogna che il governo israeliano adotti tutte le iniziative possibili per evitarlo. Bisogna dirlo con molta nettezza: i numeri ci parlano di una tragedia senza precedenti, di un assedio che moltiplicherà odio per le prossime generazioni. Biden dopo il 7 ottobre aveva ammonito Netanyahu invitandolo a non fare gli stessi errori degli Usa dopo l’11 settembre. Invece la reazione è stata disumana. L’impressione è che Netanyahu non fermerà il conflitto fino a quando non ci sarà il cambio da lui auspicato alla Casa Bianca con Trump. Accanto a questo colpisce l’offensiva contro tutte le istituzioni multilaterali di governo del mondo, a partire dalle Nazioni Unite. Non si può fare finta di niente. La critica al Governo di Israele oggi non c’entra nulla con l’antisemitismo che purtroppo esiste ancora e che va combattuto ovunque esso si annidi. Qui il confine è tra essere umani e non esserlo. È tra il rispetto del diritto internazionale e la logica della vendetta. E ha fatto bene il Pd a presentare una mozione che prova a dire al governo italiano che è il momento di fare politica e non limitarsi alle evocazioni di principio. Fare politica significa chiedere il cessate il fuoco e non astenersi alle Nazioni unite. Fare politica significa sostenere i progetti della cooperazione e non congelarli. Fare politica significa sostenere l’Urnwa e non sospendere i fondi per un’organizzazione che evita il collasso umanitario nella striscia. Fare politica significa sostenere l’iniziativa di Sanchez per il riconoscimento europeo dello Stato di Palestina e non limitarsi ad affermazioni generiche. Fare politica significa – come ci raccomanda Marco Fumagalli su l’Unità – cercare di capire cosa è successo al campo della pace in Israele e Palestina, perché si è ristretto, perché non ha trovato più terreno per essere coltivato. C’è chi rivive dopo il 7 ottobre l’incubo della Shoah, chi invece sulle immagini di Gaza pensa a una nuova Nakba. Questo l’ho potuto verificare un mese fa durante un viaggio in Terrasanta. I giacimenti d’odio non si alimentano solo perché c’è un episodio scatenante, ma per una lunga semina di occasioni mancate. Non si ricostruiscono i fili del dialogo se non si riparte da questo collasso della ragione. E se non si mettono in campo classi dirigenti che abbiano da dire qualcosa di più rispetto alla semplice riproposizione di una nuova stagione di corsa agli armamenti. Non mi rassegno all’idea di un mondo nuovamente diviso in sfere imperiali di influenza. Questa non è pace, è solo assenza di guerra. Che ne prepara altre, forse più devastanti.

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