Intervista a Giulia Rodano: pubblicata su l’Unità del 17 Gennaio 2024
L’ex dirigente della Fgci «Le subalternità della sinistra alla controrivoluzione liberista è dipesa anche dalla nostra incapacità di capire che negli anni ‘60 e ‘70 il mondo lo stavamo cambiando davvero»
di Umberto De Giovannangeli
Una vita a sinistra. Militante, attivista, dirigente di partito, rappresentante eletta dai cittadini, assessora. Sono tanti i ruoli ricoperti, sempre a sinistra nel corso della sua lunga vita politica. Impegnata fin dal movimento studentesco del ‘68, ha militato nei movimenti pacifisti, nelle lotte per i diritti delle donne, nelle battaglie per i beni comuni. È stata dirigente nazionale della FGCI, ha militato nel PCI, nel PDS/DS, e ne è stata dirigente. La parola a Giulia Rodano.
“Quella spinta che voleva cambiare il mondo”. È molto più del titolo di “Allonsanfàn”, l’incontro del 10 febbraio a Firenze “delle ragazze e dei ragazzi della Federazione Giovane Comunista Italiana degli anni ’70-‘80”. Di quella FGCI sei stata militante e dirigente nazionale. Cosa è stata quella “spinta che voleva cambiare il mondo” e che ne è rimasto oggi?
La spinta certamente c’era. Allora per quasi nessuno di noi, a mia memoria, la politica si identificava con un cursus honorum dentro le istituzioni, con una “carriera”. Eravamo tutti e tutte militanti, alcuni a tempo pieno. Per noi militanza e vita di fatto coincidevano. Per di più, per molti coincidevano anche con l’adesione all’organizzazione, al partito. Ragionandoci oggi, è stata una grande opportunità, perfino sul piano della crescita personale. Abbiamo avuto la fortuna di aver avuto un luogo, anche fin troppo autorevole, nel quale e anche contro il quale, misurare le nostre passioni, le nostre idee, la nostra voglia di cambiamento. Per me, almeno, è stata una formazione straordinaria. Capire che cosa ne sia stato di quella spinta rappresenta un quesito veramente difficile. Nel corso dei decenni che sono passati, avrei risposto che la spinta non si è mai spenta, che indignazione contro le ingiustizie, voglia di cambiare, necessità di non accontentarsi non mi sono mai passate e ho cercato di farle vivere, nei contesti diversi in cui mi sono trovata. Oggi, risponderei in modo diverso.
Come?
Proprio in questi anni, e più acutamente dopo aver attraversato la pandemia e il ritorno drammatico della guerra, ho cominciato a pensare che molte delle indiscutibili subalternità culturali e politiche di tanta sinistra e anche di tante e tanti della nostra generazione, me compresa, naturalmente, alla controrivoluzione liberista iniziata negli anni ’80, siano dipese anche dalla nostra incapacità di capire che negli anni ’60 e ’70 noi avevamo già cominciato a cambiare il mondo, stavamo praticando una vera e propria rivoluzione delle idee, delle relazioni, dei rapporti di forza. Basta scorrere l’elenco delle leggi di riforma di quegli anni o rileggere il discorso di Berlinguer sull’austerità, o ripensare alle battaglie e alle elaborazioni delle donne o di personaggi come Basaglia o Don Milani, o, ancora, ai ragionamenti che nutrivano la battaglia sulla sanità o sulla riforma del diritto di famiglia. Non esserne stati consapevoli fino in fondo, probabilmente ci ha impedito di comprendere la violenza e la potenza della reazione che quella rivoluzione italiana ha suscitato. Ci siamo divisi tra chi ha pensato che avessimo osato troppo e chi invece ha pensato che avessimo osato troppo poco. Abbiamo fatto una rivoluzione, ma non ce ne siamo accorti. E così non siamo stati in grado di difenderla veramente quella rivoluzione.
Quella FGCI era pacifista, praticava la non violenza e aveva una forte vocazione internazionalista. Tutto archiviato?
Quella FGCI era la figlia diretta della temperie degli anni ’60 e ’70. E quindi era internazionalista e contro la guerra. Teniamo conto che eravamo ancora nel pieno della guerra fredda e della deterrenza nucleare. Non solo, ma la questione della collocazione internazionale dell’Italia e dell’Europa era uno dei problemi cruciali per la sinistra e per il PCI. All’inizio degli anni ’80 si aprì la stagione degli euromissili e della corsa al riarmo voluta da Reagan. Ricordo molto bene, io ero già fuori della FGCI e lavoravo al partito di Roma, la sostanziale freddezza del PCI nei confronti della battaglia dei movimenti contro gli euromissili e in generale verso il movimento pacifista. Certamente noi eravamo pacifisti e avremmo dovuto essere coerentemente per il superamento dei blocchi militari, per il disarmo, e così via. Ma anche questi temi hanno subito la pressione terribile di quegli anni di ferro e di fuoco di cui parlavo prima e a sinistra si è cominciato a pensare che quelle idee fossero utopiche, non realistiche, che fossero di impedimento alla costruzione di una alternativa di governo. Così abbiamo perduto l’occasione degli anni ’90, della caduta del muro di Berlino e della fine del Patto di Varsavia per dare il via finalmente a quell’Europa dall’Atlantico agli Urali e a quel nuovo ordine mondiale di cui oggi sentiamo acutamente la mancanza. Siamo rimasti anche noi prigionieri delle logiche di contrapposizione, della spinta unipolare degli Stati Uniti e oggi siamo alla guerra mondiale a pezzi. Quindi in realtà quelle idee sono tutt’altro che archiviate, ma sono state messe in sonno. Ma sarebbe terribilmente necessario risvegliarle. Quanto alla non violenza, non so se eravamo non violenti. Eravamo drasticamente contro la violenza politica. Tutti e tutte ne eravamo in qualche modo stati vittime. Eravamo per la lotta di massa, per la lotta democratica. Non eravamo certamente tra coloro che ritenevano la Costituzione una rivoluzione tradita, anche se, insisto, forse non avevamo capito quanto proprio quella Costituzione fosse alla base delle conquiste degli anni ’60 e ’70 di cui anche noi eravamo stati tra i protagonisti.
Le giovani della FGCI spostarono a sinistra il Partito sul femminismo. I diritti delle donne hanno accompagnato tutta la tua esperienza politica. Oggi a che punto si è sulla parità di genere?
Non so se è corretto parlare di spostamento a sinistra. Certamente allora noi più giovani eravamo profondamente coinvolte nelle vicende e nelle lotte del movimento femminista e questo si rifletteva anche nel dibattito interno all’organizzazione “mista” come si diceva allora. Discutevamo moltissimo di quella che chiamavamo la “doppia militanza”, la possibilità di stare e militare in entrambi quegli spazi. La vicenda della legalizzazione dell’aborto fu particolarmente significativa e noi eravamo schierate a sostegno del valore dell’autodeterminazione, che segnò la grande vittoria, non solo legislativa e politica, ma culturale e identitaria delle donne. Il rapporto con i movimenti delle donne contribuirono anche a far comprendere ai partiti della sinistra, da un lato, che le donne esprimevano una autonomia politica, contenuti e pratiche che non erano assorbibili all’interno della “lotta generale del movimento operaio” e dall’altro che la modernizzazione e la laicizzazione della società italiana erano anche il portato positivo di movimenti di emancipazione e di crescita della coscienza di grandi masse di donne e uomini e non solo di élites ristrette. Cosa che fu clamorosamente confermata dai due referendum sul divorzio e sull’aborto. La rivoluzione delle donne è quella che ha determinato le conseguenze più durature e irreversibili. Nei decenni che abbiamo alle spalle, però, mentre le donne trasformavano la propria vita, le proprie aspirazioni e la coscienza di sé, la loro condizione è peggiorata. Le politiche liberiste, le privatizzazioni dei servizi, la precarizzazione del lavoro, la stessa retorica individualista, fondata sul farcela da soli e da sole, hanno accresciuto le disuguaglianze di genere e la vulnerabilità delle donne. Però, e la manifestazione del 25 novembre scorso lo dimostra, mi sembra che proprio nella rivoluzione che le donne hanno compiuto e che nel fatto che essa rappresenti un dato di coscienza di massa ormai ineludibile, risieda una delle maggiori speranze, insieme alla consapevolezza della crisi ambientale, della ripresa di lotte per il cambiamento.
Lotta di classe, una visione ecopacifista della crescita, la difesa dei più indifesi, a cominciare dai migranti che continuano a morire nel Mediterraneo… Una sinistra che non è all’altezza di queste sfide, può ancora definirsi tale?
Per essere all’altezza, innanzitutto bisogna essere convinti che queste questioni non siano il portato inevitabile dell’unico modello di produzione e consumo esistenti. Occorre cioè una sinistra che ricominci a farsi le domande giuste, che non rimanga attardata a pensare che la questione centrale sia lo sviluppo e di conseguenza il profitto, che si possa al massimo intervenire per ridurre e lenire le disuguaglianze e le ingiustizie e soccorrere le povertà. Se non ci si pongono le domande giuste, non si trovano neppure le risposte giuste alle sfide. Ed è quello che è successo in questi ultimi decenni. Oggi, paradossalmente quasi solo Papa Francesco chiama le cose con il loro vero nome, quando parla di un sistema economico di morte, che produce “scartati” e invoca la necessità di un cambio di sistema. Sulla spinta dei giovani che denunciano la catastrofe del riscaldamento globale e poi durante la pandemia, si era cominciato a parlare, anche nel dibattito pubblico, della necessità di cambiare il paradigma. Ma tutto è tornato nel silenzio. Eppure emergenza climatica e pandemia hanno reso evidente che questo sistema economico, queste modalità di produrre e di consumare sono incapaci di mantenere le loro stesse promesse. Il mondo oggi è più insicuro, povero e ingiusto. La questione che forse non esiste un altro mondo, ma che esiste certamente un altro modo, diverso, per stare al mondo, deve essere la domanda, l’interrogativo su cui misurarsi.
La Palestina dimenticata. Il genocidio di Gaza. Quella FGCI aveva la kefiah nel cuore. E oggi?
Oggi, “quella” FGCI ha ancora la kefiah nel cuore e in tanti la hanno ancora. Basti pensare alle grandi e crescenti manifestazioni e iniziative di solidarietà in tutto il mondo. Ma il problema sta ancora nella mancanza di coraggio da parte delle classi dirigenti che nell’occidente e in particolare in Europa si definiscono di sinistra o democratiche, di prendere atto che il modo in cui oggi si pretende di governare il mondo, fondato sulla contrapposizione e sull’uso della potenza militare è non solo tragicamente ingiusto, ma fallimentare e rischia di portare il mondo in una situazione sempre più instabile e drammatica. Senza soluzioni politiche non si fermano la guerra e lo sterminio a Gaza. Ma il mondo e in particolare l’occidente sembrano incapaci non solo di trovare, ma persino di cercare, soluzioni politiche ai conflitti. Avere la Kefiah nel cuore, oggi significherebbe per noi avere il coraggio di affermare politiche diverse da quelle degli Usa, di ricostruire un ruolo e una funzione per il nostro continente. E dobbiamo continuare a provarci.