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C’era una volta la Fgci: tra pacifismo ed ecologismo, quella spinta che voleva cambiare il mondo

Intervento di Simone Siliani pubblicato su Strisciarossa del 9 febbraio 2014

di Simone Siliani

Ragazze e ragazzi che hanno, di generazione in generazione, costruito un’esperienza politica (ma anche umana, culturale e sociale) che si chiamava Federazione Giovanile Comunista Italiana, si riuniscono a Firenze il prossimo sabato 10 febbraio in una giornata dal titolo Allonsanfán. Quella spinta che voleva cambiare il mondo. Il riferimento al film dei fratelli Taviani richiama una tensione tra ideali di fratellanza e un vecchio ordine agonizzante, tra opportunismo e idealismo, tra generazioni mature disilluse e giovani impegnate. Noi ci siamo identificati con quel ragazzo in camicia rossa, appunto Allonsanfán, che non si arrende né alle forze del vecchio ordine borbonico, né all’opportunismo e all’egoismo di una generazione di ex-rivoluzionari.

Quella di Firenze non sarà reunion di reduci; nessun romanticismo (che pure è stato un movimento di grande importanza culturale e anche di riscatto politico se pensiamo a Chopin), né nostalgia (che è un sentimento nobile ma, come direbbe uno dei protagonisti di quella stagione, pre-politico e, dunque, inutilizzabile in questo ambito). Piuttosto un’occasione di riflessione politica e, ahimé, anche storica sulla Sinistra che è stata e su quella che sarà, che dovrà essere. Che cosa accomuna queste generazioni di giovani così diverse? Direi che ciascuna di esse ha dato un contributo originale alla cultura politica della Sinistra. È quella che Cecilia D’Elia, in una sua intervista a l’Unità, ha chiamato l’autonomia politica che ogni generazione presenta. In maniera longitudinale ognuna di queste generazioni ha innovato e trasformato la Sinistra nel nostro Paese e in Europa. Ciò è avvenuto perché i ragazzi e le ragazze della Fgci hanno (quasi) sempre svolto una funzione osmotica fra la società italiana progressista e i Partiti politici in cui si è organizzata la Sinistra in Italia. È stato attraverso la Fgci che tante idee nuove, movimenti ed esperienze sociali e politiche che erano avanti, sono entrate in contatto con il Pci, sono diventate patrimonio comune della Sinistra. Soprattutto in tempi e su temi in cui il Pci era più chiuso, meno disponibile a confrontarsi su problemi e con culture che non appartenevano al suo DNA, era la Fgci ad esplorare il mondo esterno e a tradurre istanze, progetti, culture nel linguaggio della Sinistra storica, del Pci.

Posso ricordare, a questo proposito, la mia esperienza e quella di tanti miei compagni e compagne nell’ultima fase della storia della Fgci, quella degli anni ‘80, fino al suo scioglimento e alla trasformazione in Sinistra Giovanile. Non potrò mai dimenticare di un mio intervento al XXIII Congresso nazionale a Napoli, nel febbraio 1985, quello della nuova Fgci, che aveva l’ambizione programmatica di cambiare la politica e la società. Non ero ancora iscritto; partecipavo e intervenivo come rappresentante del Movimento per la Pace. Nel mio intervento sostenni le ragioni dell’obiezione di coscienza al servizio militare e del servizio civile alternativo. A quel punto mi interruppe niente di meno che Gian Carlo Pajetta, il quale sostenne che tutti dovevano imparare a sparare, soprattutto i comunisti! Credo che farfugliai qualcosa tipo “forse un tempo, ma oggi è più importante difendere il paese dai disastri ambientali o dalla marginalità sociale”. Almeno, così ho cercato di fare, ma oggettivamente ero un po’ intimorito: in fondo a parlare era un pezzo di storia di questo paese, un resistente. Ma mi confortò il sostegno dei ragazzi e delle ragazze della Fgci che nell’esperienza dell’obiezione di coscienza e della nonviolenza riconoscevano un elemento nuovo e importante per l’identità della Sinistra in Italia: furono loro a mostrare insofferenza verso l’interruzione di Pajetta.

Questo è il primo elemento originale che la generazione della “mia” Fgci ha portato dentro il Pci. La pace nel tempo dell’era atomica, dell’opposizione agli euromissili (gli SS-20 sovietici e i Cruise e Pershing II americani), la cultura della nonviolenza (che si scrive tutto attaccato perché non si definisce per antitesi alla violenza, ma è una cultura, un modo di concepire i rapporti fra le persone e fra l’uomo e il pianeta autonomo). Avevamo assorbito questa cultura, oggettivamente lontana da quella del Pci, durante i blocchi nonviolenti alla base di Comiso, nelle migliaia di iniziative, marce, incontri dei tanti Comitati per la Pace che avevano spontaneamente organizzato migliaia di italiani contro la nuova escalation nucleare, ma anche contro la cultura della violenza. Fu poi Enrico Berlinguer a sposare pienamente l’impegno del Movimento per la Pace, ma dentro il Pci non fu una passeggiata di salute. Ma, forse, il contributo più significativo, innovativo e per ciò stesso controverso che la generazione di giovani comunisti cui ho appartenuto ha portato nel Pci fu quella dell’ambientalismo. Era decisamente una cultura confliggente con quella storicamente sviluppista e industrialista del Pci. Diversi furono i conflitti fra Fgci e Pci su alcune questioni ambientali. Basterebbe in Toscana ricordare la vicenda dell’industria chimica Farmoplant di Massa, dello sviluppo di nuove autostrade e superstrade che attraversavano la regione e, fra tutte, la vicenda dello sviluppo urbanistico a nord-ovest di Firenze, la cd. Variante Fiat-Fondiaria. Spesso ci siamo trovati su posizioni contrapposte, anche in consultazioni referendarie, tra Fgci e Pci. Noi rivendicavamo un’autonomia politica, il diritto a schierarci in base al merito dei diversi progetti di sviluppo urbanistico o infrastrutturale e non alla fedeltà al colore dell’Amministrazione interessata (spesso rossa) o comunque alla linea del partito. Ma in realtà il dissidio era più profondo. Riguardava l’idea dello sviluppo, tutta quantitativa quella del Pci, più attenta ai limiti e alla qualità quella della Fgci. Anche in questo caso era il contatto con filoni di pensiero, con nuove acquisizioni scientifiche e con movimenti esterni a quelli di riferimento del Pci a fare per noi la differenza. Studiavamo e ritenevamo più adatte a comprendere e a fronteggiare le crisi ecologiche che già negli anni ‘80 si manifestavano le tesi dell’economia ecologica. Essa incorporava la considerazione degli impatti sul Sistema Terra nella valutazione delle scelte politiche. Aveva un approccio critico rispetto all’economia tradizionale, basata sull’imperativo della “crescita” continua e che si scontrava, allora come oggi, con due limiti fondamentali alla crescita stessa: quello biofisico e quello etico-sociale. Quell’economia, nella quale il Pci era completamente immerso, considerava le “esternalità” (cioè quanto la società paga per non aver considerato il valore delle risorse naturali nelle scelte di governo del territorio o dello sviluppo produttivo-industriale) come qualcosa al massimo da “internalizzare” nei conti economici. Ma non c’era mai alcuna considerazione della irreversibilità e degli impatti in sé degli interventi antropici sull’ambiente. Tanto che noi concepivamo la Valutazione d’Impatto Ambientale come una serie di studi e analisi da svolgersi prima della decisione sull’opera stessa, che dovevano comprendere anche l’opzione zero, cioè l’insostenibilità dell’opera stessa. Era certamente un’impostazione anticipatrice di quella oggi suffragata da studi scientifici non più opinabili sulle dinamiche dei sistemi naturali stressati dalle attività antropiche, molti dei quali hanno abbondantemente superato i limiti di capacità di carico di quei sistemi.

A distanza di anni, posso dire che questo nostro contributo alla cultura politica della Sinistra non fu assorbito dal Pci. Ma non per il fondo industrialista-sviluppista che pure ancora resisteva nella visione del mondo del Pci, ma forse perché era già iniziata negli anni ‘80 quella deriva che portò poi le formazioni politiche epigone del Pci a concepire il governo come il primo e più importante, poi anche l’unico, obiettivo del Partito. Il mondo non lo abbiamo cambiato allora e nemmeno il Pci, che fu cambiato piuttosto dal mondo. Avevamo ragione, ma avevamo confidato nella nostra capacità, ciclopica in verità, di cambiare la politica; almeno quella più vicina a noi, portando dentro il partito le contraddizioni che provenivano da culture, per così dire, “aliene”.

Ma il Partito oggi non c’è più e i partiti non sono più l’unico o il maggiore recipiente in cui convogliare “quella spinta che voleva cambiare il mondo”. Le nuove generazioni cercano altrove i luoghi in cui riversare e coltivare questa passione e quest’ansia di cambiamento che naturalmente ti pervade quando sei giovane. Questo è un tema che va compreso nella sua complessità e, almeno a breve termine, ineluttabilità. Non si può far finta che non esista. Né possiamo risolvercelo con la nostalgia per i bei tempi andati (che è atteggiamento da vecchi e, dunque, incomprensibile per i giovani). Dobbiamo continuare a cercare idee, analisi, esperienze nuove, giovani che i partiti della Sinistra oggi non riescono a intercettare, a concepire. Perché questo mondo, la nostra società, “contiene moltitudini” per dirla con Walt Whitman; mentre la Sinistra oggi contiene a malapena solo se stessa.

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