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sabato, Luglio 27, 2024

“Per rendere moderna la sinistra servirebbe la Fgci con i suoi ciclostili”

Intervista a Walter Verini pubblica su l’Unità del 9 febbraio 2014

di Umberto De Giovannangeli

Quella esperienza così formativa l’ha vissuta, da giovanissimo, nella “sua” Umbria. Era la FGCI dei tumultuosi anni ’70. Una formazione, politico-culturale, di cui Walter Verini ha fatto tesoro nel prosieguo della sua attività politica – è stato tra l’altro Tesoriere del PD, capo della segreteria di Walter Veltroni quando era ministro dei Beni culturali e Vice presidente del Consiglio, segretario dei Democratici di Sinistra, sindaco di Roma e infine segretario del PD – e parlamentare – più volte eletto, oggi è senatore Dem.

Domani a Firenze “Allonsanfàn”: l’incontro “delle ragazze e dei ragazzi della Federazione Giovane Comunista Italiana degli anni’70-‘80”. Di quella FGCI sei stato militante e dirigente, cosa è rimasto oggi di “quella spinta che voleva cambiare il mondo”? 

Sono ancora vivi ideali e valori, sì. Nel senso che è ancora necessario cambiare il mondo e battersi per principi che tutto sommato si riassumono (certo, nel mondo e nelle società di oggi) in Libertà, Eguaglianza, Fraternità, a proposito di “Allonsanfán”… Principi che però, per essere non solo vivi ma anche vitali, vanno declinati in un nuovo pensiero democratico e progressista globale, di cui si sente la mancanza. Non credo che le cause delle inadeguatezze della Sinistra, da anni, possano essere ridotte al tema di una presunta “subalternità” al liberismo. Quelle forze di sinistra che hanno apertamente dichiarato la non subalternità, hanno svolto prevalentemente funzioni di testimonianza minoritaria. Pen- so piuttosto che la globalizzazione abbia colto disarmata la Sinistra di ogni latitudine. La cassetta degli arnesi del Novecento era da tempo, ben prima della caduta del muro, inadeguata. E la crisi globale – culminata con la bolla di Wall Street – ha causato precarizzazione, impoverimento e uno stato psicosociale di insicurezza a centinaia di milioni di famiglie, abituate a vivere nel- la sicurezza. Nuovi poveri che sono andati ad aggiungersi alle povertà strutturali e sui quali le semplificazioni populiste delle Destre hanno trovato terreno fertile. Problemi complessi, risposte complesse, dice giustamente la Sinistra. No: risposte semplificate, immediate, populiste, autoritarie ha fatto credere la Destra. Che c’è riuscita. Altrimenti non avrebbero vinto i Trump (minaccia nuovamente incombente), i Bolsonaro, i Milei. Altrimenti nell’Europa non ci sarebbe una forte prevalenza di governi di destra e sovranisti. Anche in Italia, dove berlusconismo prima e Salvini-Meloni poi hanno convinto tanti italiani. O la presenza di forze di estrema destra di ispirazione suprematista spesso elettoralmente ben oltre le due cifre. Se a questo aggiungiamo il tema dei cambiamenti climatici, della rivoluzione tecnologica e digitale (e ora quella dell’intelligenza artificiale) e il cambio di relazioni umane e sociali provocato da pandemia e lockdown, si capisce quanto grande sia il bisogno di un grande ammodernamento di valori e ideali, di un pensiero globale progressista e di sinistra che affronti queste sfide. A partire da quella che il mondo in guerra ci pone: la crisi e la difesa dei diritti e della democrazia in crisi e sotto attacco. In questo senso la FGCI servirebbe ancora, con i suoi ciclostili e la sua visione.

Quella FGCI aveva una forte vocazione internazionalista, figlio dei tempi. Tutto archiviato? 

Sì, internazionalismo ma non banalizziamo. Mi iscrissi alla FGCI a 15 anni. Credo che la prima tessera fosse firmata da Gianfranco Borghini. Poi da Renzo Imbeni, da D’Alema, poi passai al partito. Se dovessi fissare in due parole un ricordo di quella FGCI, direi: passione e futuro. In questo senso quella “mia” FGCI si intreccia molto con il meglio dei comunisti italiani di Berlinguer. Nel 1973, chiudendo la Festa Nazionale de l’Unità a Milano, Berlinguer parlò della necessità di “un’Europa né antiamericana né antisovietica”. E lo disse mentre gli USA spargevano napalm sul Vietnam. Vero, dopo le gravi colpe del PCI che non condannò la repressione sovietica dell’Ungheria nel’56, c’era stata l’invasione di Praga e lì il PCI si collocò dal- la parte giusta. Ma insomma, quella frase a Milano, nel tempo del Vietnam, del colpo di Stato in Cile, era coraggiosa. Per questo an- che noi volantinavamo davanti alle Chiese e alle scuole insieme ai giovani dc e degli altri movimenti giovanili. Per questo gridavamo “Cile libero” e non “Cile rosso”, come estremisti minoritari avrebbero preteso aggiungendo “Compagno Berlinguer, lo insegna il Cile, il compromesso storico si fa con il fucile”, come gridavano a noi “ figicciotti” quelli di Lotta Continua a Torino, al corteo della grande manifestazione per il Cile, conclusa a Piazza San Carlo da Sandro Pertini. Insomma, prendevamo il meglio della le- zione della Resistenza italiana e dell’unità antifascista che portò alla democrazia e alla Costituzione. E quando lo stesso Berlinguer, non molto più tardi, parlò della necessità di un “governo mondiale dell’economia”, vent’anni prima della “globalizzazione”, portava anche noi della FGCI su un terreno innovativo, di un internazionalismo” che poi sarebbe andato oltre i recinti del Novecento.

La tua esperienza nella FGCI fu a cavallo tra la fine degli anni’60 e la metà dei ’70. Anni tumultuosi, di rottura. Anni di grandi speranze ma anche “anni di piombo”

Sì. Il decennio Settanta, sull’onda lunga del sogno di libertà e fantasia degli anni Sessanta, del Sessantotto, portò a grandi conquiste e aprì anche le porte alla cupezza degli anni di piombo. Del resto, gli anni Sessanta, erano stati rivoluzionari per la Chiesa con il Concilio, per la musica e il costume. per l’arte che dall’informale apriva le porte alla pop-art. Per “L’altra America” Kennediana, per la ricerca scientifica e la conquista dello spazio, per le lotte studentesche ed operaie. In URSS ci fu l’avvio della destalinizzazione con Krusciov ma poi i simboli diventarono Dubcek e soprattutto Ian Palach. E le musiche…oltre agli “scontati” Dylan e Baez, alle rivoluzioni dolci di Beatles e Rolling Stones, i cantautori italiani erano colonna sonora. Da C’era un ragazzo di Lusini (lanciata da Gianni Morandi) a Dio è morto, che sembra scritta ieri sera. Non potevano, quegli anni, non “trainare” conquiste sociali e civili. Penso alle grandi riforme sociali, sanitarie, al divorzio e poi alla 194. Allo Statuto dei lavoratori… Alle vittorie elettorali della Sinistra e del PCI nel ‘75 e nel ‘76.

La reazione del neofascismo, da Piazza Fontana in poi, fu cruenta, violenta. Di una Destra che provava a fermare il rafforzamento e l’estensione della democrazia nata dalla Resistenza. Ma ci fu anche il terrorismo di sinistra, quello legato “all’album di famiglia”, di pezzi dell’estremismo che – magari dando una lettura aberrante del marxismo – passarono alla violenza, dalle “armi della critica alla critica delle armi”. Ricordo con un certo orgoglio la “Resistenza” della FGCI nelle scuole, nelle Università contro questo pericolo per la democrazia, incoraggiati dalla linea del PCI sostenuta da importanti leader come Amendola, Berlinguer, Lama. L’assassinio di Moro e quello dell’operaio comunista Guido Rossa furono momenti drammatici, ma che rafforzarono il nostro legame con la democrazia e la Costituzione. Rafforzarono in noi il senso dello Stato nella migliore accezione, dell’interesse generale del Paese… 

Non si tratta di “nostalgismo”. Ma di quella storia, di quei valori, di quell’impegno collettivo cosa ti porti dentro e cosa pensi sia ancora attuale?

Un po’ l’ho detto. La passione: noi “vivevamo” la FGCI per passione democratica. La stessa, fatte le debite differenze, che portò i nostri genitori a fare i partigiani: rischiarono la vita per la libertà di tutti, non certo – per dire – per fare dopo l’assessore. E poi la voglia di futuro. Mi soccorre ancora il Berlinguer dei pensieri lunghi: il discorso alla Festa di Arezzo sul femminismo, quello all’Eliseo sull’austerità: i soliti minoritari estremisti lo sbeffeggiarono, ma con i limiti di quel tempo invitava tutti a pensare a un nuovo modo di produrre, vivere, lavorare, salvando uomo e pianeta. Oppure l’intervista a Nando Adornato, su Orwell e le sfide tecnologiche. Potrei continuare: la visione, unita alla concretezza quotidiana è quella che servirebbe ancora oggi ed è quella che vivevamo nella nostra FGCI.

Oggi tu ricopri importanti incarichi nel Partito Democratico, di cui sei anche senatore Di fronte a una destra aggressiva, fortemente identitaria, la sinistra, e in essa il PD che ne è forza largamente maggioritaria, si è attrezzata, politicamente, culturalmente, per reggere una sfida su grandi temi come la pace, la lotta alle disuguaglianze, una crescita sostenibile, una idea di sicurezza che non si traduca in securitarismo (sui migranti e non solo)?

Per i motivi che ho cercato di dire credo che la fase, come si diceva, sia molto difficile. I problemi non sono soltanto locali, nazionali. E lo scenario di guerra, l’escalation, l’aggravarsi di crisi energetiche, economiche e sociali rischiano di aggravarli. Questo accresce le nostre responsabilità. Però qualche passo sulla strada giusta (pur interrotta, pur con gravi errori, pur con gravi responsabilità) l’abbiamo compiuto. La svolta di Occhetto e la nascita del PDS; l’esperienza dell’Ulivo ‘96 di Prodi; la nascita del PD di Veltroni sono tappe di un cammino che non deve fermarsi. Con i necessari cambiamenti (anche radicali in certi casi) cercare di rafforzare la coesione di tutte le culture riformiste (il meglio del Novecento con le nuove culture politiche contemporanee) dentro il PD, nel Paese, in Europa è fondamentale. E poi “bergoglizzare” la Politica, cioè tornare a condividere la vita vera, quotidiana delle persone non solo attraverso i social e proporre speranza di cambiamento. Parla- re al Paese, unire in una battaglia comune fragilità, emarginazione, lavoro, impresa, formazione, cultura, diritti sociali e civili… E vivendo la vita vera ci accorgeremmo che anche la sicurezza è un tema di sinistra. Se declinato in modo securitario, è pericolosamente di destra, se accompagnato anche da risposte sociali, culturali, di illuminazione sociale e fisica delle periferie e delle solitudini, è una nostra battaglia. Infine, per chiudere con Berlinguer: la questione morale. Che non voleva dire e non significa solo “non rubare” (anche se la legalità, lotta a corruzione e mafie debbono essere nostre bandiere). Significava e significa che i partiti debbono recuperare un ruolo originario, quello dell’articolo 49 della Costituzione, di soggetti di partecipazione e organizza- zione della democrazia, non di occupazione di spazi impropri, di nomine non fondate su criteri di competenza e capacità. Ecco, anche da qui si dovrebbe ripartire per cambiare il mondo. A partire da principi antichi, dicevo: e difendere la libertà e la democrazia, e la pace giusta messe in crisi da tanti fattori è uno dei terreni più avanzati.

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