Intervista a Amos Cecchi, pubblicata su l’Unità del 28 Gennaio 2024
«Il lungo sessantotto fu un periodo straordinario. Avviammo una rivoluzione in tutti i campi. Ma non riuscimmo a rovesciare il sistema Dc, e fummo sconfitti. Ora serve la capacità di tornare a una critica del capitalismo»
di Umberto De Giovannangeli
Amos Cecchi è un “pezzo” importante della storia della FGCI. Ne è stato dirigente in Toscana e poi a livello nazionale. Lo è stato a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni’70. Anni tumultuosi, ricchi di idealità, di movimenti, di lotte, e anche di violenza., Cecchi li ha vissuti in “trincea”, e quelle esperienze, quelle battaglie, l’hanno accompagnato nel proseguo della sua attività politica e saggistica. Tra i suoi libri ricordiamo il più recente: Paul M. Sweezy. Monopolio e finanza nella crisi del capitalismo (Firenze, University Press).
Quella spinta che voleva cambiare il mondo”. È molto più del titolo di “Allonsanfàn”, l’incontro del 10 febbraio a Firenze “delle ragazze e dei ragazzi della Federazione Giovane Comunista Italiana degli anni ’70-‘80”. Di quella FGCI sei stata militante e dirigente nazionale. Cosa è stata quella “spinta che voleva cambiare il mondo” e che ne è rimasto oggi?
Siamo stati partecipi di un grande movimento. È indubbio che quella del sessantotto è stata una spinta anti-autoritaria, libertaria, ugualitaria. Ha prodotto una rottura epocale nei rapporti primari di cui è intessuta la società, quelli interfamiliari, intergenerazionali, istituzionali, sociali, politici. Con la rivolta nella rivolta, con l’emergere del femminismo, anche nel fondamentale rapporto donna-uomo si è aperta la crisi. Niente è stato come prima. Punti importanti, sociali e culturali, si sono sedimentati, anche se un cambiamento generale sistemico non c’è stato. Una riflessione è necessaria. Nella breccia, politica e culturale, aperta dalla contestazione si inserisce sia il nuovo protagonismo operaio, che con l’autunno caldo riporta la classe operaia al centro dello scontro sociale, sia il prorompere del femminismo, sia la nuova coscienza ambientalista. È il lungo sessantotto, con la sua crescita della soggettività e la sua multiforme domanda di cambiamento che mette in discussione finanche la logica di un sistema, la cui idea di prosperità infinita è entrata in crisi in tutto l’occidente capitalistico. E che qui chiama in causa la politica condotta fino a quel punto dall’assetto di potere esistente.
Vale a dire?
Non era semplice, sul piano politico, rispondere. Il problema che si poneva era strutturale, sociale e culturale. Quella spinta necessitava di una capacità dell’intera sinistra occidentale ̶ in quella fase anche con importanti posizionamenti di governo ̶ di fare un passo avanti nel rapporto fra democrazia e capitalismo e in quello dell’economia-mondo fra paesi dell’opulenza e paesi del sottosviluppo – elementi di consapevolezza sono nel Berlinguer dell’austerità -. Al contempo, richiedeva una risposta coerente, qui in Italia, da parte del PCI, per spostare in avanti i rapporti di forza e difendere la democrazia, accrescendo il consenso, in specie delle nuove generazioni, intorno ad essa. E qui la sinistra, nel suo complesso, è mancata. E, via via, con l’emergere del capitalismo monopolistico-finanziario, con la sua configurazione a rete nella produzione, con il debito dilagante e la finanza debordante, con l’attacco, sociale e culturale, del neo-liberismo al complesso dello stato sociale, si è determinata una sconfitta storica del movimento operaio.
Eppure in quegli anni furono realizzate riforme importanti.
Nessuno lo nega. Ma c’è una contraddizione profonda, nel sentire diffuso, fra quella domanda di cambiamento, maturata in particolare fra la gioventù e la risposta del PCI, al quale il consenso montante affidava un ruolo di interprete primario di una svolta. Insomma, l’onda lunga del sessantotto s’infrange sulla politica della solidarietà nazionale e la non rottura del sistema di potere democristiano. Non si può intendere neanche il settantasette senza tutto ciò. Il giudizio sui giovani dato da Pasolini era sbagliato. Io e Cesare Luporini (un mio maestro), su questo, lo contrastammo, in un dibattito alla festa nazionale de l’Unità del 1975. E penso ancora che avessimo ragione. Ma su quello che egli chiamava il processo alla Dc era nel giusto. Come da considerare a fondo era (ed è) la sua metafora sul Palazzo e il paese reale.
Quella FGCI aveva una forte vocazione internazionalista. Tutto archiviato?
Oggi, come ieri, l’attenzione a tutto ciò che nel mondo si muove, con un segno di cambiamento, o viene contrastato non può che essere parte di un impegno di sinistra. Incide anche su di noi. In particolare, per un’iniziativa di sinistra la dimensione europea è ancor più necessaria. È necessario, qui, ribaltare la compiacenza agli interessi dominanti propria di chi guida l’Ue e agire nella dimensione-mondo, per rilanciare sui diritti, la pace, il disarmo, l’equilibrio del sistema-ambiente, i cambiamenti da introdurre, con determinazione, nella struttura dell’economia-mondo.
La tua esperienza nella FGCI fu a cavallo tra la fine degli anni’60 e la metà dei ’70. Anni tumultuosi, di rottura. Anni vissuti in trincea.
Anni indimenticabili. Stando nel movimento e nel partito. Cercando di farli dialogare. Siamo stati in trincea. Ma anche all’attacco. C’è un punto di chiarezza da fare. Anche nella riflessione storico-politica sul periodo, l’idea prevalente è quella di una supremazia costante dei gruppi (le formazioni politiche extraparlamentari): penso a Ginsborg, per esempio. Non c’è dubbio che il PCI e la FGCI ebbero un rapporto problematico con le nuove generazioni studentesche al sorgere del movimento. In specie, nell’Università, dove esso prese il via, la presenza nostra fu travolta. Non così nell’insieme della scuola media superiore. Una parentesi: insistiamo molto e giustamente sull’ultimo Berlinguer, dovremmo fare altrettanto sul Longo del sessantotto. Senza la sua ridefinizione del paradigma del PCI (con l’appoggio al movimento studentesco e alla Primavera di Praga) un nuovo rapporto fra giovani e Pci sarebbe stato impensabile. Ma riprendiamo il discorso. Nelle scuole medie superiori la FGCI mantenne un rapporto con i giovani. E da lì, ricostruì se stessa e, facendosi portatrice dell’autonomia e dell’unità del movimento degli studenti, dette un contributo rilevante al suo rilancio nella prima parte degli anni settanta. Proprio in questi giorni, cinquant’anni fa, si ebbe il grande sciopero nazionale degli studenti medi ̶ indetto dagli organismi autonomi studenteschi ̶ quando anche i gruppi si accorsero che i rapporti di forza erano cambiati: cosa che si confermò nel voto studentesco per i decreti delegati. Pensiamoci un attimo. 150 mila iscritti alla FGCI. Oltre il cinquantacinque per cento alle liste da noi appoggiate fra gli studenti medi in un voto assai partecipato. Un passo avanti significativo nella presenza politica e nel voto anche nell’Università. Eppure il gruppo dirigente del PCI non comprese l’importanza della nostra presenza forte nel movimento e, quindi, di un fattore in più per una politica dinamica di cambiamento. Il che disvela un limite politico e una lettura inadeguata della società italiana.
Non si tratta di nostalgismo o di ricordare una “bella gioventù” oggi incanutita. Ma di quella storia, di quei valori, di quell’impegno collettivo cosa ti porti dentro e cosa pensi sia ancora attuale?
Uguaglianza sociale, democrazia e libertà. Ovviamente da declinare in modo più avanzato, con la rottura con il patriarcato in tutte le sue forme, con la salvaguardia dell’ambiente, quale discrimine sociale per ogni scelta economica, con l’attenzione all’individuo, alla sua realizzazione e alla sua libertà, nella valorizzazione delle differenze. Il meccanismo economico in atto concentra al suo apice più ristretto ricchezza e potere, determinando una disuguaglianza fortissima e crescente, allargando le banlieue del capitalismo avanzato e distanziando ancor più le periferie del globo, rovescia un processo distruttivo sull’ambiente, rende problematico, su tanti piani, il realizzarsi dell’individuo, pur a fronte di straordinarie potenzialità tecnico-scientifiche, e produce nella società un malessere profondo. Con quel background penso sia possibile aprire nuovamente e fortemente una critica del capitalismo. In specie in una fase in cui il potere degli oligopoli globali e la finanza al centro del sistema, con la sua logica perversa e insostenibile, stanno producendo una rottura fra capitalismo e democrazia. L’idea di socialismo non può esser sdoganata negli Usa e perdere di senso proprio laddove è stata concepita.
E dunque, che fare?
Il malessere sociale si contrasta alzando il tiro. Se non incontra una risposta socialmente adeguata può sbandare. E lo sta già facendo. Una destra arrembante ci gioca spudoratamente. È una preoccupazione che dobbiamo avere fortemente. Anche per questo guardare e comprendere quel che si muove in positivo è d’obbligo: l’onda d’urto del femminismo e della contestazione del patriarcato, la nuova coscienza ambientalista, il pacifismo, il movimento di lotta dei lavoratori e le diffuse iniziative civiche sui problemi della vita quotidiana. Ai movimenti, alle idealità che emergono, a questa politicità critica ha da corrispondere una soggettività politica di massa, in grado di dialogarci e di essere fattore moltiplicativo, con una visione nuova, una autonomia (che è capacità di confrontarsi con il sistema, con un orizzonte altro) e una risposta politico-programmatica complessiva.
Lotta di classe, una visione ecopacifista della crescita, la difesa dei più indifesi, a cominciare dai migranti che continuano a morire nel Mediterraneo, una effettiva parità di genere, mobilitarsi contro il genocidio in atto a Gaza… Una sinistra che non è all’altezza di queste sfide, può ancora definirsi tale?
Una sinistra all’altezza dei problemi oggi manca. La subalternità al neo-liberismo e al governismo, largamente diffusasi anche a sinistra (ne è esempio il PD, ma il processo viene da più lontano) e al politicismo (con l’autoreferenzialità di un ceto politico attento a riprodursi, anche nelle formazioni dichiaratamente antagoniste) solleva il problema grande e attuale della sua ricostruzione. Senza una sinistra critica dell’esistente, politica e non identitaria, anche il resto dell’area progressista non ha sollecitazioni a produrre cambiamento. È un cantiere da aprire.