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lunedì, Ottobre 7, 2024

“La Città Futura” che parlava di noi

Essere giovane, essere donna, essere cattolica alla fine degli anni Settanta

Nel maggio del 1977, quando “La Città futura” iniziava le sue pubblicazioni, avevo giusto vent’anni. Rileggerne oggi alcuni articoli, sfogliarne qualche pagina, mi ha fatto tornare in mente chi ero allora, una giovane ragazza piena di ideali. Vorrei condividere alcune riflessioni e suggestioni su certi temi che allora – ma direi anche oggi – affrontavamo in prima persona, anche se con modalità diverse.

Frequentavo la Facoltà di Lettere a Firenze tra via degli Alfani e piazza Brunelleschi, venivo dal Liceo Galileo dove, come studentessa, avevo militato nel Movimento Studentesco Fiorentino.

Tra i banchi della mia classe un ragazzetto bello, politicizzato, e “intellettuale”, che suonava la chitarra e cantava come Guccini, mi aveva fatto innamorare … E, come diceva Dante “… amor mi prese del costui piacer sì forte, che come vedi ancor non m’abbandona”, e da allora – sempre insieme – condividemmo speranze, passioni, ideali, esperienze e… famiglia!

Il periodo del Liceo (1971-1976) e poi dell’Università, vide quindi per me, come per tanti, intrecciarsi ciò che allora si definiva “pubblico e privato”.

Quelli furono gli anni dell’affermazione dei Decreti Delegati, le battaglie per i referendum sul divorzio e sull’aborto, e il primo voto ai diciottenni come me che portò alla grande avanzata del PCI di Enrico Berlinguer. Anni intensi di battaglie che animavano noi giovani e ci mobilitavano profondamente nel tentativo di trasformare e migliorare la società italiana.

Venivo da una famiglia di stampo cattolico, maestri elementari che avevano scelto di far crescere a Firenze le loro bambine anziché a Catania. Frequentavo la parrocchia del mio quartiere. Anche il mondo cattolico, dopo il Concilio Vaticano II, non era più lo stesso. Aperture, travagli, nuove posizioni e integralismi si scontravano ormai apertamente.

In quegli anni essere giovane, essere donna, essere “catto-comunista” – come spesso si veniva definiti – rappresentò una sfida che segnò la mia formazione e la mia storia personale.

Non è un caso che già nei suoi primi numeri “La Città Futura”, in cui – come tanti compagni e compagne – mi rispecchiavo, tra i molti temi affrontati avesse anche questi: l’essere giovani, l’essere donne, l’essere cattolici.

Ed infatti… già nel n.2 (18/5/1977) Massimo D’Alema poneva la questione della necessità di percorrere una strada comune tra comunisti e cattolici “per salvare l’umanità dal pericolo di una guerra atomica e per aprire nuove prospettive di liberazione del genere umano”. Non solo… anche per perseguire obiettive concreti nell’ottica di una battaglia unitaria che, nel nostro Paese, portasse alla costruzione di “un impegno comune nella difesa e nello sviluppo della democrazia” e affrontasse “i grandi temi della questione giovanile” convinto che “solo in una pluralità di apporti politici e ideali potranno maturare le condizioni per superare la crisi del paese e costruire, in modo originale, una società socialista nel nostro paese”.

Ma ciò che i “maschi”, anche comunisti, molto raramente affrontavano nelle loro analisi, era quel movimento di trasformazione che partiva dalle donne. In quello stesso numero 2 un articolo di Giulia Rodano – non nella prima pagina come l’articolo di D’Alema, ma a pagina 4 -, affrontava il tema della questione femminile: “il crescere della nuova soggettività femminile si è venuto traducendo in gruppi consistenti di donne, e soprattutto di ragazze, nella consapevolezza che il disagio, l’emarginazione e la frustrazione inerenti alla condizione femminile derivano, più che da questa o quella specifica circostanza, proprio dall’essere donne; ne scaturisce, di conseguenza, la volontà di una lotta che esprima esplicitamente e globalmente il rifiuto del ruolo femminile quale è vissuto in questa società”.

Partendo da un’analisi del movimento femminista e delle difficoltà emergenti, Giulia Rodano affrontava la questione di fondo che caratterizzò la posizione delle “ragazze” comuniste e cioè che pur partendo da una necessaria riflessione femminile “autonoma” non ci si dovesse fermare alla sola “contraddizione con il maschio” quasi fosse “il portato di un dato naturale e quindi in definitiva insuperabile”, rischio presente in talune delle matrici culturali di certo femminismo.

La sfida era tutta centrata sulla “possibilità che il movimento si estenda, divenga più unitario, riesca a contare e vincere ulteriori battaglie”. E ciò nella necessità di aprire “un grande dibattito in grado di affrontare e sciogliere questi nodi.”

Dunque “l’utopia del cambiamento” a 360 gradi era la stella polare che guidava i nostri passi e ispirava le nostre lotte di quegli anni. Ma come la giornalista Cosetta Crosti sottolineava nel numero 3 (25/5/1977), occupandosi del grande evento che si stava organizzando a Livorno nei primi di giugno del 1977, e cioè la V Conferenza Nazionale delle ragazze comuniste, “non si può vivere tra l’angoscia della propria condizione e la speranza dell’utopia”. Il problema di fondo che ci attanagliava – allora ma ancora nella nostra attualità – era il rifiuto di ruoli che comunque, anche all’interno della nostra organizzazione, volevano delegarci alla classica divisione di genere che era ampiamente consolidata nella società e nella famiglia, a meno di voler seguire modelli di “maschilizzazione”.

E quella V Conferenza fu l’occasione perché noi “ragazze” comuniste – “tanto denigrate solo perché non si definiscono già donne oppure, revivalisticamente, fanciulle” come sottolineava Cosetta Crosti nel n.5 (8/6/1977) – potemmo aprire un grande dibattito ricco di spunti e sollecitazioni.

Giovanna Filippini, che allora era la responsabile nazionale delle ragazze comuniste, sottolineava la necessità che si dovesse aprire “una battaglia ideale e culturale” che mettesse “sotto accusa una società profondamente malata” – parole che risentiamo oggi di nuovo nella critica ad una società violenta verso le donne e ancora viziata dal “patriarcato” -. E per fare ciò bisognava contare necessariamente sul ruolo che le ragazze potevano svolgere, partendo da sé per costruire “una donna nuova in una società nuova”.

Nello stesso numero de “La Città Futura” anche la giornalista Carla Ravaioli sottolineava il ruolo importante che le “giovani” masse femminili potevano svolgere più di quanto non potessero fare quelle donne che, avendo alle spalle già grosse porzioni di vita, erano più inquadrate in un certo schema esistenziale: “tra le giovani generazioni la rivolta verso la vecchia condizione femminile subalterna sta prendendo piede con maggiore rapidità e con maggiore chiarezza. È tra loro che tutte le tematiche di lotta proposte dall’analisi dei movimenti femminili e femministi, sta diventando battaglia culturale di massa; e sono ancora loro le più capaci di rigettare questi condizionamenti culturali, psicologici, di costume che la storia ha imposto alle donne”.

E ciò doveva avvenire anche nei partiti, anche nella politica, nel “far” politica, che doveva farsi “meno astratta, meno distaccata dalle masse, più vicina alla realtà quotidiana della gente, ai suoi bisogni”. E concludeva: “mi sembra che le donne possano veramente irrompere in quel mondo supermaschile che è il mondo della politica per immettervi quei valori che sono stati convenzionalmente dipinti come femminili, ma che invece sono dei valori e delle categorie umane che appartengono a uomini e donne, ma che finora sono stati relegati soltanto nell’ambito della vita affettiva, familiare, privata ed esclusi dal più vasto sociale, e quindi anche dalla politica”.

Profondamente permeata da questi convincimenti, anche io arrivai a Livorno col mio zainetto, la mia gonnellina a fiori e l’aria femminista, così come ci descrissero molti giornali del tempo.

Giovanna Filippini, a quella Conferenza di Livorno, esprimeva, come riportato anche nel n.5 de “La Città Futura”, un convincimento che tutte avevamo in cuore, e che cioè “la lotta di emancipazione e di liberazione sarà una lotta di lunga durata e di lunga prospettiva”. E per giungere al traguardo di divenire “sempre più essere umani pienamente liberati”, senza che ciò rimanesse una semplice utopia, “la lotta delle donne deve scegliere il terreno del possibile, del razionale, e perciò intrecciarsi, ed essere a sua volta aiutata, dal concreto realizzarsi del processo di trasformazione del Paese”. Ma, avvertiva, se il movimento delle donne non dovesse riuscire a costruire “questo rapporto originale e autonomo con la società, con la politica, con la storia, il rischio è che il grande patrimonio della nuova coscienza si sgretoli, rifluisca, venga inghiottito dall’aggravarsi della crisi del paese nella quale, come donne, si rischia di rimanere subalterne e impotenti”.

Questo processo si intrecciava, talora si scontrava – nella complessità di un mondo cattolico, spaccato sempre più a partire dalle posizioni rispetto al divorzio, all’aborto, all’istituzione dei Consultori e anche al consolidamento delle scuole cattoliche – col crescente integralismo incarnato dal movimento di “Comunione e Liberazione”.

Rispetto a ciò la stessa Filippini si diceva convinta che l’aggregazione di molte ragazze in associazioni come queste, esprimesse la necessità di trovare non solo delle “risposte generali alla crisi dei valori, ma anche di fornirli su un terreno più specifico come quello della famiglia, della condizione femminile, dell’aborto”.

“Comunione e Liberazione” riproponeva alle ragazze quella tradizionale “concezione integralista, tutta chiusa nel valore del matrimonio, dove la donna trova la sua realizzazione nella famiglia e la famiglia trova la sua vera identità solo nel valore religioso, negando la possibilità di una realizzazione attraverso valori laici”. Ma se questa era la posizione più conservatrice del mondo cattolico, in realtà si osservava come la vivacità di “molti gruppi cattolici, legati alla vita di parrocchia e all’Azione Cattolica, in cui è molto presente la ripresa della vita di gruppo, della solidarietà sociale” dimostrasse quanto il mondo cattolico stesse recuperando “un nuovo approccio culturale e in definitiva ideologico, con i giovani e le ragazze”. Occorreva allora spingere su questo bisogno diffuso, avvertito da più parti, di ricercare il cambiamento a partire dalla propria condizione, trovando “nuovi punti di riferimento nella società e nella sua stessa possibilità di modificarsi”.

La V Conferenza delle ragazze comuniste lanciò allora una sfida: quella di “aprire, sviluppare una grande offensiva politica e culturale di massa” per estendere “la nuova coscienza” e la “spinta ad una lotta autonoma e collettiva” nella “ricerca dell’unità delle ragazze” e la “convergenza di massa di tutte le ragazze su alcune idee-forza di fondo”. E dunque la scelta di “raccogliere la spinta all’autonomia, allo stare insieme, di far esprimere l’insofferenza, le potenzialità positive presenti tra le ragazze, pur di non farle disperdere, per farle contare”. Perché la “complessità della questione femminile è data dal fatto che la subordinazione delle donne passa anche nel lavoro, nella scuola, passa in tutta la società. Perciò la presa di coscienza può e deve partire da un personale non astratto, ma da un personale concreto, in cui anche tutti questi elementi sono già presenti nel modo in cui le ragazze vivono e sentono”.

È questo, concludeva Giovanna Filippini, nelle sue parole riportate da “La Città Futura” a conclusione della V Conferenza di Livorno, “che dobbiamo far divenire consapevolezza di massa. Non contrapponendo al privato, il sociale, il politico. Ma facendo divenire elemento della soggettività, coscienza di massa, sbocco della presa di coscienza anche i contenuti, gli obiettivi nelle lotte per l’occupazione, per la riforma della scuola”.

Su questi temi, come già detto, c’era convergenza con una parte del mondo cattolico e netta contrapposizione con un’altra. Nel numero 12 (27/7/1977) de “La Città Futura” Maurizio Di Giacomo realizzava una sorta di “viaggio-inchiesta” sugli orientamenti culturali di fondo nel mondo cattolico registrandone fermenti innovativi e ambiguità, anche a livello femminile. Tra i tanti intervistati una sola ragazza, la diciassettenne Danila, di Gioventù Aclista, di Milano, che apriva uno squarcio interessante sulla “presenza delle giovani acliste nel consultorio familiare”.

La sua testimonianza era molto interessante, sul tema della convergenza di azione sul terreno comune della questione “femminile”: “Per noi l’ispirazione cristiana non crea problemi. Lavoriamo con i partiti della sinistra. Avevamo proposto incontri fra noi donne, per far vedere che i nostri problemi sono analoghi. Ma due signore democristiane attempate, legate al Cif (Centro Italiano Femminile, ndr), hanno reagito scandalizzate: “Noi non vogliamo parlare dei nostri problemi. È roba nostra e lo diciamo in confessionale”. Il commento finale sul piccolo episodio riportato evidenziava le difficoltà che spesso incontravano i cristiani disponibili al dialogo e all’impegno comune su temi concreti in una diocesi tentata dal modello di un cristianesimo “accerchiato alla polacca”. Lo stesso, devo dire onestamente, non capitò nella mia parrocchia fiorentina a Novoli, dove proposi in quegli anni di affrontare in un dibattito aperto la questione femminile all’interno della Chiesa, sia sul piano teologico che pastorale: assemblea che fu molto partecipata.

La dicotomia delle posizioni nel mondo cattolico tra chi perseguiva l’isolamento sdegnoso e chi la contaminazione tra diversi, emerse fortemente nel pontificato del polacco Karol Wojtyla, che sarà papa dal 1978 per quasi 27 anni. E se Wojtiyla veniva da una Chiesa “fortino” anticomunista in contrapposizione all’ideologia sovietica, oggi abbiamo un papa come Bergoglio spesso tacciato di simpatie comuniste, forse perché, venendo dall’America latina, sente più vicino un cristianesimo militante tra la povera gente, come quello spirito della “teologia della liberazione” che affascinò tanti giovani portandoli perfino –scriveva Piero Pratesi nel n.17 (21/9/1977) de “La Città Futura” – a “fare del Vangelo un breviario della rivoluzione o leggere il Discorso della Montagna come un codice della città terrena”.

Certamente io mi sono sempre riconosciuta, come molti cristiani, in quello sforzo comune di costruzione di una “società nuova e migliore”. Piero Pratesi concludeva il suo articolo “Chi risponde alla speranza dell’uomo?”, avanzando dubbi e critiche rispetto a certe posizioni come quella di padre Sorge, Direttore di “Civiltà cattolica”, che ruotavano sulla pretesa di voler separare il cristiano “dallo sforzo immenso degli uomini storicamente impegnati a costruire spazi più ampi di liberazione e di giustizia, mai definitivi, mai “globali” e tuttavia più schiettamente umani”.

Si trattava di temi oggetto di dibattito e discussione, e non solo nel mondo cattolico, alla luce di una ripresa di slancio e vitalità specie nell’impegno di tanti in una fase delicata della politica nazionale. “Non è questa la domanda implicita nell’ansia ideale e nella passione di tanti giovani? – chiedeva Pratesi – “E non è questa la ragione intima, profonda, del confronto che il movimento operaio italiano ha aperto e non certo da oggi, con il mondo cattolico, la sua storia, le forze che lo hanno espresso politicamente?”

La vita poi mi ha portato ad essere insegnante, moglie e madre. In ognuno di quei ruoli ho continuato a impegnarmi per cambiare la società. Continuando a credere, praticare e lottare per quegli ideali in cui avevo creduto. E che oggi mi appaiono attuali come allora!

Matilde Griffo

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