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sabato, Luglio 27, 2024

Non in “in vitro” ma in “vivo”

Danilo Di Matteo, Chieti, ricorda la Fgci come grande laboratorio di idee

Danilo Di Matteo psichiatra e psicoterapeuta di Chieti. Per due anni, da liceale, è stato iscritto alla Fgci, e come tale ha partecipato al Congresso della sezione del Pci di Casoli (in provincia di Chieti) nel 1990. Da eterno studente, come si definisce – per dirla con Francesco Guccini – nel 2020 ha conseguito con lode la laurea triennale in Filosofia e ora studia alla Magistrale di Scienze Filosofiche. Ha scritto “L’esilio della parola”. Il tema del silenzio nel pensiero di André Neher (Mimesis 2020), Psicosi, libertà e pensiero (Manni 2021), Quale faro per la sinistra? La sinistra italiana tra XX e XXI secolo (Guida 2022). Coautore di Poesia e Filosofia. I domini contesi (Gilgamesh 2021) e di Per un nuovo universalismo. L’apporto della religiosità alla cultura laica (Castelvecchi 2023). Collabora con varie riviste. Scrive su l’Unità e su Strisciarossa. Pubblichiamo lo scritto che Danilo Di Matteo ha dedicato proprio alla “reunion” fiorentina.

Allonsanfàn, in vista della “reunion” della Fgci

Il 10 febbraio, a Firenze, si incontreranno i ragazzi e le ragazze della Fgci degli anni Settanta e Ottanta. Già, la Fgci riusciva a essere, anche negli anni Ottanta, caratterizzati dal riflusso conservatore, un vero soggetto politico, non la semplice appendice giovanile del Pci. Ho il ricordo nitido, ad esempio, del Centro di liberazione delle ragazze, che poneva con acume la questione della violenza sessuale, del pene “usato come un’arma” e della differenza. Oppure della rubrica di Pietro Folena su l’Unità, grazie alla quale emergevano spaccati di vita, distanti anni luce dal “politichese”. O, ancora, di un documento dei primissimi anni Novanta, nel quale, fra l’altro, si proponeva “un emendamento al vocabolario: l’aggiunta della parola comunismo”. Era proprio una fucina di idee, elaborazioni e lotte. Una palestra. Un laboratorio, certo, ma “in vivo”, non “in vitro”. Spesso non si riusciva a trarne, questo è vero, tutte le conseguenze e a tradurle in una linea precisa e definita. Tanti erano gli ostacoli in tal senso: la polisemia del vocabolo liberalismo, ad esempio, o le tante, troppe ambiguità del Psi, che pure esprimeva istanze di modernizzazione. Non solo del Paese, ma della stessa cultura politica (il discorso sui “meriti” e i “bisogni”).

Lo stesso Norberto Bobbio, intervenendo su L’Espresso, propose un ragionamento e un dilemma. Capitalismo e democrazia non sono certo sinonimi: tuttavia, in Occidente, per lo più sono coniugati. Cosa accadrebbe se divorziassero?

È proprio la questione oggi idealmente raccolta e riproposta da Marco Fumagalli, accompagnata da una constatazione: in diversi contesti nazionali, quasi ovunque, anzi, tale divorzio è già in atto. Da qui l’esigenza di ricongiungerli in forme diverse e inedite, per una società più giusta e più umana, come avrebbe detto Enrico Berlinguer. E mi sentirei di aggiungere un’annotazione di Jacques Derrida, che pur era distante dalla politica nell’accezione prevalente. Il dramma, l’essenza tragica della democrazia si situa nel suo duplice compito di far valere il “principio di maggioranza” (l’ultima parola spetta alla maggioranza, o meglio: alla minoranza più numerosa) e il principio dell’eguale rispetto per ciascuna e per ciascuno, singolo o gruppo (il principio base del liberalismo politico). È qui, in tale tensione, in tale conflitto che si dispiegano virtù e limiti degli ordinamenti democratici. È in tale piega che possiamo riporre dubbi, paure, speranze.

E da qui, credo, occorrerebbe ripartire per tessere la trama di un tessuto democratico europeo e globale.

Danilo Di Matteo

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