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sabato, Luglio 27, 2024

“Passione e ideali, c’è ancora bisogno di quei giovani comunisti”

Intervista a Marisa Nicchi: da l’Unità del 10 Gennaio 2024

Gli ex Fgci si ritroveranno a Firenze: “Nell’alveo di quel grande partito hanno tentato di essere un soggetto con uno sguardo autonomo, che si misurava con le nuove sfide culturali, diversamente da certe chiusure del Pci”, spiega l’ex segretaria Toscana, parlamentare con l’Ulivo e Sel

di Umberto De Giovannangeli 

Le “belle bandiere” tornano a sventolare. Guardando al futuro con la potenza di una memoria storica, di un patrimonio ideale e di esperienze che non va smarrito. Una storia di impegno giovanile proseguito nel tempo: Marisa Nicchi. È stata segretaria regionale Toscana della Federazione giovanile comunista italiana, poi dirigente regionale e nazionale del Pci. È stata parlamentare dell’Ulivo e poi in Sel. È fondatrice delle associazioni “Il giardino dei ciliegi” e “Comitato per la libertà femminile e la laicità dello Stato”. E a l’Unità racconta il significato di una iniziativa che quelle “belle bandiere” tornerà a far vivere.

Lei è tra i promotori di un incontro nazionale a Firenze, delle compagne e dei compagni dei tempi gloriosi della Fgci. Si ritorna a lottare?

Ci ha mosso il desiderio di ripensare con nuove consapevolezze gli anni ’70 e ’80, anni che non hanno uguali per le speranze suscitate e le prove affrontate. Vorremmo riavvicinarci a quell’irrequietezza esistenziale che fu il tratto comune di una partecipazione politica straordinaria e, forse, unica. Tanti e tante giovani ebbero l’opportunità di vivere un tratto decisivo della loro formazione dentro una corrente di discussione di massa e di ricerca ideale, in una speciale comunità di relazioni, nonostante anche allora non mancassero certo le differenze. È una storia che vogliamo provare a raccontare oltre l’idealizzazione o il rigetto, che sono entrambe reazioni possibili e legittime. Lo faremo con i segretari nazionali delle diverse Fgci, con le donne che hanno avuto incarichi di rilievo ma, soprattutto, con chiunque abbia vissuto quella esperienza e abbia voglia di parlarne. Riavvicinarsi a quegli anni comporta, per dirla con Paolo Conte, “tutto un complesso di cose”, prima di tutto il piacere di ricordare e di pensare insieme a una storia politica che ha segnato così profondamente le nostre vite.

Non si tratta di nostalgismo o di ricordare una “bella gioventù” oggi incanutita. Ma di quella storia, di quei valori, di quell’impegno collettivo cosa si porta dentro e cosa pensa sia ancora attuale?

Quella spinta ideale a cambiare il mondo che muoveva le lotte, la ricerca culturale, il confronto, lo studio. Le generazioni “figgicciotte”, con più o meno intensità ed in modi diversi, non sono state solo la lunga mano del PCI tra i e le giovani. Nell’alveo di quel grande partito hanno tentato di essere un soggetto ben definito, con uno sguardo autonomo, che sceglieva di calarsi nelle realtà sociali che prendevano forma, di misurarsi con le nuove sfide culturali. Non senza limiti e contraddizioni, ma così è stato, diversamente da certe chiusure del partito, davanti a momenti e temi fondamentali: il movimento del ’68, del ’77, delle donne, della pace, dell’ambientalismo. Tematiche antesignane di contraddizioni oggi esplosive e inderogabili. Una passione politica che ha lasciato il segno, che ha covato sotto le molteplici prove della vita, all’ombra di nuove convinzioni politiche o cocenti disillusioni. Ma, di questo c’è ancora enorme bisogno in tempi dominati dalla guerra, dalla minaccia ambientale, dalle tentazioni autoritarie, dalle diseguaglianze.

L’antifascismo è stato un tratto distintivo di quella Fgci, che pagò anche un tributo di sangue, con l’uccisione da parte di squadristi missini di Luigi Di Rosa, 21 anni, il 28 maggio 1976 a Sezze Romano, e di Benedetto Petrone, 18 anni, accoltellato mortalmente dai fascisti il 28 novembre 1977 a Bari. Nel 2024, la vergogna dei saluti fascisti ad Acca Larentia.

L’adunata neofascista di Acca Larentia è agghiacciante. Sconcerta oggi, ma è, purtroppo, un rito che si ripete ogni anno. Non possiamo dimenticare neppure per un attimo cosa ha rappresentato la lotta antifascista, durante e dopo la caduta del regime, e i suoi artefici. E chi, come Benedetto Petrone e Luigi di Rosa, giovani militanti della Fgci uccisi dagli squadristi, ha continuato a battersi perché non si tornasse indietro dalla libertà che altri avevano conquistata. C’è da augurarsi che lo sdegno suscitato da quanto accaduto ad Acca Larentia produca una svolta. Permane una grave sottovalutazione di queste manifestazioni che non sono solo dei raduni, peraltro illegali, di chi non si arrende alla democrazia. Perché dietro a loro e al loro fianco, forse sarebbe meglio dire davanti a loro, c’è un’operazione politica e culturale delle forze che stanno al governo del Paese. Se mettiamo in fila i vari tasselli del mosaico, il pericolo che si prospetta emerge con chiarezza, principalmente proprio a causa della noncuranza dell’opinione pubblica che non teme il ritorno al fascismo nella sua configurazione storica. In realtà si vuole delegittimare l’antifascismo, negandone il valore fondativo della Repubblica, per derubricarlo a parentesi in una lunga storia della “nazione” iniziata con il Regno D’Italia nel 1861. Nello stesso tempo lo si associa ad alcuni fatti violenti degli anni ’70 sempre condannati e combattuti dalle forze democratiche con alla testa il Partito Comunista, quasi che potessero fare da contraltare alle terribili stragi fasciste. Del resto non c’è di che stupirsi visto che Giorgia Meloni nel discorso di insediamento aveva promesso il riscatto dei “fratelli” neofascisti caduti in quegli anni. Quello che stenta ad essere colto, cullati dall’illusione di una evoluzione di Fratelli d’Italia verso un normale partito conservatore europeo, è come tante idee del passato fascista si stiano impastando nell’azione di governo. Un “lavaggio democratico” di nazionalismo, razzismo, sessismo: la celebrazione della donna madre di “italiani nativi”, la gerarchia delle vite che contano (siamo ad un anno da naufragio di Cutro), la logica della segregazione nei campi, la xenofobia a piene mani, l’attacco alla Costituzione con l’ultrapresidenzialismo e l’autonomia differenziata, la corporativizzazione della società e dell’economia, l’attacco alla libertà di sciopero e di stampa… La democrazia è fatta di tante cose, non solo della possibilità di votare ogni tanto. E se quelle cose vengono tolte di mezzo o prosciugate della loro sostanza, della democrazia resta solo un simulacro. È quello che stanno tentando di fare e sarebbe bene che tutti ne prendessimo consapevolezza.

A proposito delle disuguaglianze e del conflitto sociale. “Scontro sul salario: la lotta di classe è il motore della politica”. Questo è il titolo di un articolo di Paolo Franchi su l’Unità che ha dato vita ad un dibattito molto ricco di contenuti e plurale nei punti di vista. Lei come la pensa?

Da decenni parole come “sfruttamento”, “oppressione”, lotta di classe erano diventate impronunciabili, malgrado la realtà ne dimostrasse la presenza in vecchie e nuove declinazioni. La discussione aperta segnala, dunque, un barlume di resipiscenza dopo anni di sostanziale negazione. Una sollecitazione che fa bene alla sinistra. Riaffermare il conflitto di classe, oggi, deve dar conto delle complesse “intersezioni” che lo articolano. Lo sfruttamento che ne è all’origine si presenta sempre più come lavoro povero e precario, ma con una estrema diversità di condizioni: la vita e le scelte di riproduzione di tante donne, l’integrazione dei/delle migranti, le differenze etniche e religiose, quelle di orientamento sessuale, le dis/abilità… Differenze che alludono a diversi rapporti di dominio. Questo per rimarcare come questione sociale e lotta per nuove libertà, diritti sociali e diritti civili, non siano separati. La riscoperta della lotta di classe, non deve cedere alla rovinosa logica del “prima e dopo”, in una sorta di gerarchia di cosa conta di più e di quello che è secondario. Concezione chiaramente espressa nello slogan “Prendetevi le vocali, ma dateci equa retribuzione”, in polemica con la battaglia, considerata stucchevole, per superare l’uso del maschile nel linguaggio. Così si fa contento il Presidente Meloni. La lotta allo sfruttamento non può mettere in secondo ordine l’ansia di autonomia e di riconoscimento delle diverse soggettività. Queste ultime non sono vezzi radical chic, ma attraversano la nuova questione sociale. Proprio il femminismo, che ha realizzato, per durata e profondità, un cambiamento epocale, ha smontato la separazione dei due piani mettendo in luce le interdipendenze tra sfera pubblica e privata: se non si cambiano i rapporti privati si cambia poco nei rapporti sociali.

Per restare alla questione della lotta di classe. A tal proposito, rimarca Franchi: “La sinistra se l’è scordata. A partire da quando, al Lingotto, nel 2007, si negò che potesse esistere qualunque contrasto tra ‘padroni’ e lavoratori. Se la sinistra non torna a dar voce agli sfruttati, è spacciata”.

Dagli anni ottanta è avvenuto un capovolgimento: la lotta condotta dal basso per migliorare il proprio destino è stata soppiantata da una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e il potere erosi nei decenni precedenti. Chi è ricco ha vinto su chi è povero, chi domina su chi è dominato. Una vittoria di classe ammessa da uno più ricchi del mondo, Warren Buffett, come ricordato da Paolo Franchi. A tutto ciò si è aggiunta, fomentata dalle destre sovraniste, la viltà della guerra dei penultimi contro gli ultimi della scala sociale: gli sfruttati italiani contro gli immigrati. C’è stata un’offensiva ideologica con slogan del tipo: agevolare i licenziamenti porta con sé maggiore occupazione; la moderazione salariale è il prezzo da pagare per godere dei vantaggi della globalizzazione; è il libero mercato che regola il giusto equilibrio fra capitale e lavoro; il privato è sempre più efficiente del pubblico, a maggior ragione nei servizi pubblici; le classi non esistono più e perciò i sindacati non servono, sono un residuo di un’altra epoca. Un’operazione che ha investito non solo l’economia, sempre più finanziarizzata, ma la cultura profonda del Paese in tutte le sue espressioni. Ha cambiato la natura del potere. Idee che sono state presentate come “essenza” della modernità alle quali la sinistra, e in essa il maggiore partito nelle sue diverse metamorfosi, non ha opposto un’adeguata critica, limitandosi alla logica della riduzione del danno. Adesso sono evidenti i prezzi pagati al neoliberismo imperante, e le destre hanno avuto buon gioco a cavalcare la disillusione suscitata dalle promesse mancate. La sinistra e le forze alternative a questa destra orribile, devono superare le loro divisioni e misurarsi con il lavoro titanico di ricostruzione di una nuova visione della società e del mondo.

Franchi annota che la vicenda del salario minimo sembra avere riportato nel dibattito la nozione di sfruttati e sfruttatori. Il governo sta con gli sfruttatori. Ma il PD? Fuori dal Parlamento è ancora il “partito Ztl”?

La lotta per il salario minimo legale, che non toglie spazio alla contrattazione collettiva, ha fatto emergere la ferita sanguinante del lavoro sfruttato a cui sono costretti milioni di lavoratori e lavoratrici. La sua conclusione parlamentare ha mostrato da che parte sta il Governo Meloni. Sul piano politico ha aperto uno squarcio di luce perché ha reso più chiara la svolta del nuovo PD e ha consentito una unità d’azione del campo progressista. Un inizio che chiede di essere seguito da una decisa pratica politica unitaria e di massa, dentro e fuori le istituzioni. Terreno ostico per il Pd, partito più incline al “governismo”, meno all’azione sociale alternativa come invece hanno chiesto, in modo inequivocabile, gli elettori e le elettrici che hanno votato alle primarie la Segretaria Elly Schlein. Il suo merito, attraverso la battaglia sul salario minimo tra contraddizioni e resistenze, è quello di rimettere al centro della politica del partito il conflitto tra chi ha e chi non ha: reddito, potere, sapere. È un passo per andare oltre la ztl entro cui il PD si era da tempo confinato. Ma il lavoro da fare è enorme perché la sfiducia accumulata, quella che tiene lontana dalle urne una parte consistente del popolo della sinistra, è ancora tantissima.

Il martirio di Gaza. Un tempo, la sinistra sarebbe scesa in piazza per sostenere una pace giusta e il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Era una sinistra con una visione internazionalista. Ed oggi?

Gaza è sola. L’atrocità in atto nella Striscia, dopo l’abominio del 7 ottobre, ci parlano di un orrore indicibile. Di fronte a questo orrore di massa, parlare di diritto internazionale o di distinguere obiettivi militari e civili sembra non avere più senso. Un salto di violenza spaventoso a cui assistiamo quasi impietriti e a cui invece dovremmo opporci con la massima energia. Non vedo ancora un’adeguata iniziativa della politica, della sinistra, del Pd. Una parte della società civile e singole personalità sono in campo, ma intorno c’è un gran silenzio. Perfino parole “come cessate il fuoco”, il minimo che si dovrebbe dire, sono considerate impraticabili e irrealistiche. Violenza chiama violenza e semina odio, è benzina sul fuoco dell’intolleranza e del terrorismo. È il segno dei tempi oscuri che stiamo vivendo. Il compito della politica non è registrare l’inconciliabilità di posizioni, bensì fare di tutto per costruire un possibile punto di incontro ricercando sempre e comunque la mediazione. E lavorare incessantemente per prevenire la guerra. Ovunque. Accettare o subire come non modificabile la posizione di uno dei contendenti o di entrambi è la negazione della politica e dell’umanità. In questa situazione serve una politica coraggiosa e servirebbe un Pd molto più determinato nel promuovere la discussione e l’iniziativa necessaria. A partire dal ruolo dell’Europa che dovrebbe affrontare esplicitamente la crisi degli organi internazionali, non solo l’Onu, cui è stato affidato il compito di garantire la pace. Altrimenti continueranno a spadroneggiare i puri rapporti forza, le ambizioni delle grandi potenze che si contendono la supremazia nel mondo, e si moltiplicheranno i nazionalismi più radicali. Sì, la sinistra non può non essere europeista ed internazionalista e per questo non può non mettere al primissimo posto la parola pace.

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